E’ un’autentica galleria degli orrori il libro di Paolo Ercolani dedicato al “più antico pregiudizio del mondo”. (...) Nel finale, questa bella antologia risulta in parte compromessa dagli schemi ideologici e luoghi comuni dell’autore, che lancia invettive poco pertinenti contro il capitalismo, il “Dio mercato” e il “sistema tecno-finanziario”. Insomma, anche per Ercolani è tutta colpa del liberismo. Peccato.
A questo link, la mia recensione, pubblicata su Il Foglio di oggi.
http://www.ilfoglio.it/libri/2016/10/28/contro-le-donne___1-vr-150097-rubriche_c387.htm
sabato 29 ottobre 2016
giovedì 27 ottobre 2016
Bersani uomo mite, triste e perdente
Pierluigi Bersani insiste nel vestire panni che non sono i suoi.
L’altro giorno, per attaccare un provvedimento del governo sulla
sanatoria del contante, lo ha chiamato “la Norma Corona”, in riferimento al
denaro liquido di cui è stato trovato in possesso il famigerato fotografo-ricattatore.
Renzi ha restituito con gli interessi e l’ha giudicata “una definizione
da esperto di birra”, giocando sul duplice significato del nome, o forse
rievocando una celebre foto del 2012, che ritraeva Bersani in solitudine
davanti a un boccale di birra, mentre limava il discorso per l’Assemblea
nazionale del Pd.
Certo, il Presidente del Consiglio non dovrebbe usare certi toni, come
“Fassina chi?” verso un suo vice-ministro o “Brrr che paura” di fronte a un ventilato
sciopero della magistratura. Sono i ben noti limiti del personaggio, che suscitano
– a volte con ragione, a volte no – le ire sdegnate degli avversari. Molti sostengono
che “la politica di Renzi è sbagliata, ma lui è solo abile nel comunicare”. A
me, francamente, pare il contrario.
Tornando a Bersani, e al gioco al massacro della minoranza Pd, dispiace
che un uomo dal tratto sobrio e mite debba assumere atteggiamenti così stonati,
così palesemente in contrasto con la sua natura e il suo carattere. E non è la
prima volta che si auto-impone queste forzature: già alle politiche del 2013, venne
la promessa di “smacchiare il giaguaro”. Non suonava un po’ stridente e vana,
questa uscita, in bocca a un uomo indelebilmente marchiato da bonomia padana? Sappiamo
bene come è andata a finire.
Bersani non si accorge, quando assume questi atteggiamenti non suoi,
di non essere credibile?
Quanta “grinta” fuori posto, da parte di un uomo che si è fatto
umiliare davanti all'Italia intera, in diretta streaming, dalla grande
intellettuale e statista pentastellata Roberta Lombardi…
Bersani è sempre stato assai più e meglio un uomo di governo, che di
partito. E’ stato il capace governatore di un’importante regione, poi il
ministro alle Attività produttive che ha avuto il merito di lanciare una lunga “lenzuolata”
di liberalizzazioni. E’ sempre stato un riformista, si è sempre opposto al
massimalismo sindacale; invece ora si ritrova come compagna di corrente Susanna
Camusso, che pur di sostenere il No si oppone persino allo scioglimento del Cnel.
Insomma, la sua mitezza risulta triste e la sua politica è perdente.
Perché insiste?
martedì 25 ottobre 2016
Una corsia preferenziale per il governo. E con ciò...?
Fra le novità più interessanti introdotte dalla riforma
costituzionale, vi è quella dei “Disegni di legge governativi a data certa”,
che ha l’obiettivo di creare in Parlamento una sorta di “corsia preferenziale”
per le proposte di legge del governo. Sono esclusi da questa norma i trattati internazionali e le leggi elettorali. (Questo rafforzamento è parallelo alla fissazione
di criteri e limiti costituzionali assai più rigidi per il ricorso al decreto
legge, di cui ho parlato in un post precedente).
Anche in questo caso i sostenitori del No gridano allo scandalo, ma è
la solita messinscena degli indignati, il consueto gioco delle parti. Perché
mai una norma che ragionevolmente velocizza il percorso di alcuni provvedimenti,
che il Governo giudica essenziali, dovrebbe essere considerata una minaccia per
la democrazia e l’equilibrio dei poteri? Il compito di ogni Parlamento è di analizzare,
emendare e approvare, o eventualmente respingere, un progetto di legge. Non
certo quello di impedirne l’esame. E il compito di ogni governo è di governare,
con la dovuta efficienza.
Vediamo in dettaglio di che si tratta.
La riforma prevede che per alcune proposte di legge, giudicate
“essenziali per l’attuazione del programma di governo”, quest’ultimo possa
chiedere l’iscrizione con priorità all'ordine del giorno della Camera dei
deputati, che dovrà esaminarlo e votarlo entro
settanta giorni. Quando la richiesta del governo è depositata, la Camera ha
cinque giorni per valutare se
accettare questa richiesta o respingerla.
Se la Camera deciderà di accogliere la richiesta, essa è impegnata a esaminare e votare il provvedimento entro la “data certa” prevista.
In situazioni particolari, è previsto un ulteriore allungamento dei termini,
di altri quindici giorni, nel caso
in cui la complessità della materia o esigenze specifiche della Commissione
parlamentare competente, lo rendessero necessario. In totale 90 giorni, tre mesi di tempo, per arrivare al voto su un
disegno di legge che legittimamente il governo considera importante per la realizzazione
del suo programma riformatore.
E’ interessante notare che, rispetto alla proposta iniziale, è stata
abolita la norma che prevedeva il “voto bloccato” (come esiste nel Parlamento
francese) una sorta di ghigliottina che avrebbe permesso al Governo di chiudere
la discussione al termine dei 70 giorni e di fare votare il testo,
senza ulteriori modifiche. Questa norma avrebbe conferito più certezza al governo, ma
avrebbe limitato le possibilità per il Parlamento di esaminare la proposta.
E allora, per favore, ancora una volta: il “rischio per la
democrazia”… dove sarebbe?
sabato 22 ottobre 2016
Oggi è un buon giorno per gli amici di Israele
Ho scritto nei giorni scorsi di provare vergogna per l’astensione
dell'Italia sulla mozione dell’Unesco che attacca Israele e cita i luoghi sacri
ebraici (fra i quali il Muro del Pianto) solo con la denominazione araba, come
se l’ebraismo non avesse diritto di culto e nemmeno di esistenza a Gerusalemme.
Ma ieri Matteo Renzi si è riscattato, con una dichiarazione molto
forte e che io considero coraggiosa, in questo caso, perché avrebbe potuto
tranquillamente fare finta di niente e nascondere la polvere sotto il tappeto,
cavandosela con qualche frase di circostanza.
Il voto di astensione infatti rappresenta
una politica ponziopilatesca e cerchiobottista tipicamente italiana, da sempre mantenuta
nelle sedi internazionali, là dove non ci si oppone mai a niente e non si
vorrebbe dispiacere a nessuno.
Proprio per questo, sono particolarmente fiero di Renzi, che ha preteso e ottenuto un chiarimento dal ministro degli
esteri. Riporto qui di seguito la risposta di Gentiloni alla domanda specifica
del Corriere della Sera di oggi (pag. 3).
"La negazione da parte
dell'Unesco del legame fra ebraismo e luoghi sacri di Gerusalemme è assurda, ma
si ripete da anni. E' l'undicesima volta che l'Italia si astiene La discussione
fra le diplomazie è se il modo migliore di contrastare queste assurdità sia di
cercare di ridurre l'area di consenso a questa posizione, strada seguita sin
qui dall'Italia, ovvero, come fanno Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, se
sia meglio testimoniare la propria contrarietà. Ricordo che quest'anno per la
prima volta i Paesi astenuti sono più di quelli a favore: 27 a 23, con 6 voti
contrari. Rispetto alla precedente votazione una decina di paesi, fra i quali
Francia e Svezia, sono passati dal sì all'astensione. Mi rendo conto che questo
calcolo diplomatico non è stato capito e che la scelta di voto abbia ferito la
sensibilità di molti. Ne ho parlato con Renzi, alla prossima occasione, in
aprile, cambieremo il nostro atteggiamento".
Dunque il governo annuncia che,
dopo 11 astensioni, la prossima volta l’Italia voterà contro queste mozioni odiose e
strumentali in seno all’Unesco. Fra l’altro, è bene ricordare che
questo istituto internazionale dovrebbe “tutelare il patrimonio artistico e
culturale dell’umanità”, non servire da trampolino per il lancio di invettive di
odio anti-ebraico.
Mi sembra un buon risultato. Bravo Renzi: non mi ero sbagliato a
giudicarlo. Il mio apprezzamento va a lui personalmente e al suo fare politica
a viso aperto. Renzi si è confermato in questa circostanza un autentico amico
di Israele, certo assai più di una parte dello stesso partito di cui è
segretario.
venerdì 21 ottobre 2016
Troppi decreti? Indignati, ma non troppo
Parliamo adesso di decreti legge. Questo istituto viene radicalmente
modificato dalla riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre. (Viene
introdotto anche il “disegno di legge governativo a data certa”, di cui
scriverò la prossima volta).
Oggi i decreti legge sono emanati dal governo ed entrano
immediatamente in vigore. Il Parlamento può convertirli in legge, con o senza modifiche,
entro 60 giorni. Altrimenti decadono. La Costituzione dice solo che il governo
può ricorrervi “in caso di straordinaria necessità e urgenza”, senza specificare.
Una legge dell’88 aveva cercato di definire meglio questi criteri, ma
trattandosi di una legge ordinaria,
è rimasta lettera morta. I governi (tutti, di qualsiasi colore) hanno sempre largamente
abusato del ricorso al decreto legge, per governare speditamente. E i partiti
di opposizione (tutti, di qualsiasi colore) hanno sempre vibratamente
protestato. Salvo fare il contrario, una volta al governo. Nella legislatura in
corso, i decreti convertiti in legge sono stati il 30,5% delle leggi approvate;
nella precedente legislatura, il 27%. Chiaro?
Veniamo al dunque. Ora i sostenitori del No, assai smemorati, parlano poco
di questo argomento, perché non torna utile alla loro campagna demagogica.
La riforma costituzionale, infatti, mette un argine al ricorso ai
decreti legge governativi, poiché i criteri limitativi (già indicati dalla legge
ordinaria) vengono ora INSERITI NELLA
COSTITUZIONE. In questo modo, la Corte costituzionale quando valuterà i
ricorsi, potrà dichiarare inammissibile la legge per mancanza di requisiti. Oggi
non può farlo, domani sì.
Dunque questa riforma limita gli abusi del governo e aumenta le
garanzie costituzionali. Chiaro?
Inoltre, i decreti legge sono spesso provvedimenti “omnibus”, trenini
a cui il parlamento non esita ad aggiungere qualche “vagone”, lungo il percorso
di approvazione. Invece la riforma, recependo una sentenza del 2012, inserisce in Costituzione anche il criterio
di omogeneità del testo.
Infine, nel caso in cui il Presidente della Repubblica decida di
rinviare il decreto alla Camera, i termini si allungano da 60 a 90 giorni, per
dare modo al Parlamento di recepire le obiezioni del Capo dello Stato. Un’ulteriore garanzia di equilibrio
costituzionale fra governo, parlamento e Presidente della Repubblica.
Giorgio Napolitano ha raccontato, nei giorni scorsi, di avere passato
nove anni al Quirinale a ricevere le delegazioni delle opposizioni, indignate contro
l’abuso dei decreti legge governativi. Per questo, ha spiegato, voterà Sì:
proprio per consentire al parlamento di legiferare in modo più degno e
responsabile.
“NAPOLITANO HA DETTO CHE IL PARLAMENTO E’ INDEGNO…!!!”, ha subito
starnazzato in Senato il leghista Calderoli, famigerato autore del Porcellum.
Ma si può essere più scemi di così?
mercoledì 19 ottobre 2016
lunedì 17 ottobre 2016
Riforma + Italicum: facciamo due conti
Fra le tante balle spaziali propalate ad arte in questi giorni dai
sostenitori del No, spicca quella secondo cui non sarebbe la riforma costituzionale,
in sé, a comportare il “rischio autoritario”, bensì il combinato disposto fra
questa riforma e la nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”.
Secondo questa vulgata, grazie al premio di maggioranza, il governo avrebbe
il potere di scegliere il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali
e chissà cos’altro. Il mantra viene ripetuto ossessivamente dai presunti “esperti”
di diritto e politica, che confidano nella scarsa conoscenza della materia da
parte del pubblico. Eppure questa
critica è semplicemente FALSA, perché la matematica non è un’opinione.
Bastano poche cifre.
Oggi la Costituzione prevede che, per eleggere il Presidente della
Repubblica, serva - nei primi tre scrutini - la maggioranza dei due terzi dei
grandi elettori. La riforma non modifica questo punto. Pertanto servono oggi 671
voti su 1006 aventi diritto, domani - con la nuova normativa - 487 voti su 730
(630 deputati più “solo” 100 senatori).
Questo per i primi tre scrutini; ora veniamo al seguito.
Secondo le norme attuali, a partire dal quarto scrutinio è sufficiente
la maggioranza assoluta, viceversa la
riforma prevede che per i tre scrutini successivi (quarto, quinto e sesto) sia
necessaria la maggioranza più alta, dei tre quinti dell’assemblea – cioè 438
voti, con le nuove norme.
Dunque la riforma va nella direzione di una maggiore garanzia per le
minoranze, rispetto a oggi.
Con il premio di maggioranza, i seggi attribuiti al governo alla Camera
sarebbero 340; perciò la soglia dei due
terzi (487) sarebbe in ogni caso irraggiungibile, per quella dei tre quinti (438) occorrerebbe che
votassero con il governo 98 senatori su 100.
Quest’ultima ipotesi è del
tutto inverosimile, non solo di fatto – le Regioni sono notoriamente di colore
politico diverso – ma anche di diritto, poiché la riforma prevede che le
regioni più popolose eleggano i senatori assegnandone una quota alle
opposizioni.
C’è da aggiungere che, a partire dal settimo scrutinio, la riforma
prevede che la maggioranza dei tre quinti sia da calcolare non più sul totale
degli “aventi diritto”, bensì solo sui “votanti”. Poiché è da escludere che i l’opposizione
non partecipi al voto solo per fare un piacere al governo, questa norma dev’essere
intesa come l’indicazione di una possibile via d’ uscita, tramite un accordo almeno
con una parte dell’opposizione, per superare un’eventuale situazione di stallo.
In nessun caso, quindi, la
maggioranza di governo potrebbe eleggere, da sola, il Presidente della Repubblica.
Lo stesso vale per l’elezione dei giudici costituzionali.
Con la riforma, i giudici non sarebbero più eletti a Camere riunite
(come accade oggi) ma separatamente: tre
dalla Camera e due dal Senato. Le maggioranze richieste sono quelle già
indicate: due terzi per i primi tre scrutini, tre quinti nei successivi. Anche
in questo caso, chi sostiene che alla Camera il governo potrebbe eleggere da
solo i giudici costituzionali, dice il falso: la maggioranza dei tre quinti è
di 378, mentre il premio previsto dall’Italicum è di 340 seggi.
Dunque la critica è “matematicamente” infondata. Chi la sostiene non
sa contare, oppure mente sapendo di mentire.
giovedì 13 ottobre 2016
Contro la politicizzazione dell'arte
Dario Fo è morto e io leggo su facebook commenti che non mi piacciono
affatto.
Dunque siamo a questo: tutti quelli che la pensano come Dario Fo,
elogiano il grande artista, l'uomo di cultura, il fustigatore del potere
eccetera; viceversa, tutti quelli che “non” la pensano come Dario Fo, si
sentono autorizzati a dire che la sua comicità faceva schifo, che era un
estremista e un gran coglione.
Ma se ci pensate bene, proprio la "politicizzazione"
dell'arte e della cultura, è stato uno dei grandi frutti avvelenati del '68, cioè
di quella mentalità che era tipica di Dario Fo. Invece, distinguere fra il Fo uomo
di spettacolo e il “militante della cultura” che sparava cazzate a raffica,
significa davvero prenderne le distanze.
Apprezzare Fo senza condividere le sue idee: questo è il mio modo di
rifiutare la politicizzazione dell’arte, un’attitudine che ho sempre considerato
sbagliata e pericolosa.
Aggiungo che Dario Fo ha potuto per tutta la vita esprimere la sua
critica artistica e la sua opposizione politica al potere italiano. E’ stato
cacciato dalla Rai in anni lontani, è vero, in un’epoca di ottuso conformismo.
Ma poi è tornato alla grande. Ha avuto tutti, ma proprio tutti gli onori, malgrado
le sue idee estremistiche, le sue teorie complottiste e cospirative, il suo
elogio sperticato del comunismo - un’ideologia totalitaria che peraltro non gli
avrebbe mai consentito di esprimersi.
Dario Fo ha speso un’intera vita contro l’Occidente capitalistico, che
lo ha ripagato con il Premio Nobel.
Altro che repressione e censura, altro che emarginazione e
sfruttamento: emarginati e sfruttati erano gli altri. Tu, caro Dario Fo, sei
sempre stato un privilegiato. Un contestatore ricco e famoso. La tua compagna
Franca Rame è stata anche parlamentare, senatrice dell’Italia dei Valori, salvo
rapidamente dover ammettere che non serviva a nulla e che si sentiva inutile. Questi
riconoscimenti e privilegi non dimostrano forse che le tue idee, ieri comuniste
oggi grilline, che le tue analisi politiche sulla democrazia italiana e sul
potere occulto, erano completamente sbagliate…?
Scrivere queste cose, in morte di Dario Fo, non deve sembrare fuori
luogo. Tutt’altro. E’ invece un modo, secondo me doveroso, di onorare la sua
scomparsa.
Salutiamo dunque Dario Fo civilmente, senza polemiche, malgrado il suo
estremismo confusionario.
Un ultimo applauso, all’artista.
martedì 11 ottobre 2016
"Bandiere rosse, aquile nere", di Guido Cervo
La mie recensione di “Bandiere rosse, aquile nere”, di Guido Cervo
(Piemme, 700 pagine, 22 euro) pubblicata su Il Foglio di oggi
Facendo uso di una prosa schiettamente neorealista, Guido Cervo
racconta la grande tragedia della guerra civile italiana, dal 1939 alla
Liberazione. (…) Cervo sottolinea di non aver voluto porsi, con questa opera,
al servizio di particolari orientamenti politici o ideologici. “E’ il racconto
delle vicende di singoli individui, al tempo stesso vittime ed eroi – e talora
anche carnefici – nel contesto di una grande tragedia nazionale: un periodo in
cui uomini e donne potevano compiere azioni e accettare di esporsi a rischi e
sofferenze oggi nemmeno immaginabili”.
A questo link, la recensione completa:
http://www.ilfoglio.it/libri/2016/10/11/bandiere-rosse-aquile-nere___1-vr-148978-rubriche_c380.htm
lunedì 10 ottobre 2016
Perché i moderati devono votare Sì
Riflettiamo bene. Quali saranno gli effetti politici del referendum?
In caso di vittoria del Sì, la risposta è piuttosto semplice: ne
uscirà rafforzato il governo Renzi, che condurrà in porto la legislatura fino
alle elezioni del 2018. Forse ci sarà un rimpasto, con la sostituzione di
alcuni ministri. Niente di più.
In caso di vittoria del No,
invece, le cose sono molto più complicate.
La vecchia sinistra di Bersani e D’Alema, con Sinistra Italiana (ex
SEL) potrà “gloriarsi” di avere fatto cadere un governo a guida PD, precipitando
questo partito in una guerra fratricida. Sarebbe la miserabile soddisfazione
del settarismo di sinistra, a vocazione minoritaria. Sai che figata.
Sul fronte opposto, anche in
Forza Italia si coltivano grandi illusioni. Il tempo lavora a favore di Salvini
e Meloni, che hanno la metà degli anni di Berlusconi. Costui è “sceso in campo”
nel ’94, ha vinto le elezioni nel 2001 e nel 2008, sempre allo scopo dichiarato
di unire e far vincere la grande coalizione dei MODERATI italiani. Tutti infatti
hanno riconosciuto a Berlusconi il merito di aver “messo la museruola” a Bossi
e di avere sdoganato Fini. Ma sempre da posizioni moderate, europeiste e di “buon
governo”.
Chi può dire, oggi, di rappresentare queste posizioni, corrispondenti agli
interessi e alle aspirazioni del ceto medio italiano? Salvini e Meloni,
sicuramente no. Nell’area berlusconiana, questo obiettivo è stato oggetto dal
tentativo di Stefano Parisi, ma la reazione veemente e la stroncatura da parte del
gruppo dirigente di Forza Italia, fanno capire che l’operazione è già morta in
partenza. Senza contare che, se mai Parisi vincesse la competizione in Forza
Italia, né Salvini né la Meloni accetterebbero di accodarsi nel ruolo di semplici
“comprimari”. Essere gregari di Berlusconi (e dei suoi miliardi) era un conto,
esserlo di Parisi è tutt’altra cosa. Dunque i “berluscones” non si illudano: se
mai vincesse il No, non saranno certo loro a beneficiarne.
Il vero trionfatore della
vittoria del No sarebbe Beppe Grillo.
In questo caso, l’incubo di un governo a 5 Stelle si potrebbe
materializzare come prospettiva imminente e concreta. Mancherebbe poco più di
un anno.
Perché mai i moderati italiani dovrebbero
favorire questa ipotesi?
Perché mai coloro che hanno più volte votato Berlusconi – secondo me,
sbagliando - in quanto leader di un polo “liberale” e per il “buon governo”, dovrebbero
ora volutamente infilare la testa nella ghigliottina, felici di farsi
decapitare da un partito giacobino ed estremista, che promette un fisco ancora
più poliziesco, il giustizialismo, l’uscita dell’Italia dall’Europa e dalla Nato…?
Contrariamente alle indicazioni di Berlusconi e di Forza Italia, i moderati e il ceto medio italiano devono
difendere i loro interessi, votando Sì al referendum, risparmiando all’Italia
pericolose avventure e dolorose disavventure.
domenica 9 ottobre 2016
D'Alema suona sempre due volte
Ricordate? Nel 1996 il centro-sinistra vince le elezioni e Prodi
diventa capo del governo. D’Alema presiede la Commissione per le riforme istituzionali.
Come nasce la commissione D’Alema? Intanto è “speciale”, bicamerale, in deroga
all’articolo 138 della Costituzione, e si assume il compito di elaborare un testo
di riforma "chiavi in mano". Una procedura discutibile, diversa da quella
seguita per la riforma Boschi, che ha scelto invece la strada maestra del
dibattito nelle sedi istituzionali appropriate - ma naturalmente oggi D’Alema accusa il governo Renzi di “forzare
la mano al Parlamento”.
La Commissione D’Alema avrebbe dovuto proporre una riforma che poi,
emendata eventualmente dal Parlamento, sarebbe stata sottoposta a referendum
popolare. Ma allora, evidentemente, non faceva scandalo.
La proposta di D’Alema prevedeva il superamento del bicameralismo
paritario (ma pensa!) il rafforzamento dei poteri del governo rispetto al
Parlamento (ma guarda!) e un moderato aumento dei poteri delle Regioni.
Non solo. La Commissione D’Alema proponeva anche un radicale
cambiamento della forma di governo, con l’elezione popolare del Presidente
della Repubblica, in un assetto semipresidenziale. Cioè molto di più di quello
che propone oggi la riforma di Renzi, accusata da D’Alema di “rischio autoritario”.
Poi un bel mattino venne Bossi, fece uno starnuto e la Commissione D’Alema
fu polverizzata. Irritato da questo smacco, poco dopo D’Alema fece cadere Prodi
e assunse la guida del governo, gettando le basi per il fallimento della
sinistra e il ritorno al potere di Berlusconi.
Non pago di tanto capolavoro, D’Alema sembra oggi intenzionato a offrire
il bis.
La situazione presenta alcune analogie. Tagliato fuori dal Parlamento
nel 2013, D’Alema ambiva al posto di Commissario alla politica estera europea,
che invece è andato a Federica Mogherini. E’ questa la “poltroncina” per la
quale D’Alema ha dichiarato guerra a Renzi (“io almeno Prodi l’ho compensato
con la presidenza della Commissione Ue”, ha infatti dichiarato di recente, ospite
di Lilli Gruber) e si è nuovamente lanciato, con impegno degno di miglior causa,
nell'impresa di fare cadere il governo della sua stessa parte politica. Perché Renzi
è riuscito a fare esattamente ciò che D’Alema stesso ha tentato e non gli è
riuscito, cioè di riformare e modernizzare le istituzioni italiane.
Evidentemente, quello di lavorare per gli avversari è il mestiere che a
Massimo D’Alema riesce meglio.
giovedì 6 ottobre 2016
I Sì sono una sintesi, i No solo una somma
Ripropongo qui, in forma più estesa, una considerazione tutta “politica”
sul referendum del 4 dicembre, che ha già suscitato una vivace discussione su
facebook. (Sul contenuto della riforma mi sono già pronunciato varie volte e ancora
lo farò nei prossimi giorni).
Parto da una banale constatazione: chi vota Sì al referendum, vota per
qualcosa. Chi vota No, vota semplicemente contro. Ma c’è dell’altro.
Quelli che votano Sì, come gli altri, non la pensano affatto allo
stesso modo, fra loro: sono elettori del Pd, di Forza Italia, dei Cinque Stelle
eccetera, insomma votano per i partiti più diversi. Ma in occasione del
referendum, essi riconoscono la validità - o l’opportunità, che è quasi lo
stesso - di una proposta riformatrice. Dunque il voto per il Sì è un voto “laico”, perché riunisce persone diverse,
con opinioni diverse, intorno a un progetto ben identificato e mirato. Per
tutti costoro, la riforma della
Costituzione è una sintesi, un
minimo comune denominatore che appunto li “accomuna”, li unisce.
Viceversa, i No hanno un solo obiettivo: abbattere, o indebolire, il
governo Renzi, ma con intenzioni le più disparate e con ambizioni spesso contrapposte.
I grillini votano No perché Renzi è “il nuovo Berlusconi”, mentre i
berlusconiani votano No per preparare il ritorno del loro leader; la vecchia sinistra
vota No accusando Renzi di una svolta a destra; mentre la destra - quella vera,
razzista e xenofoba - vota No per portare al governo Salvini; e così via. In
altre parole, coloro che votano No sono
una somma senza significato.
Votare No non è un progetto, non è una proposta, non è nulla. Si vota
No per un calcolo di partito, alla ricerca di un vantaggio tattico, oppure per un
preconcetto, per antipatia verso Renzi. Votare
No non è laico, ma settario (se si esclude forse un’esigua minoranza, sempre
innamorata dei dettagli).
Quali saranno, dunque, gli effetti del referendum?
La vittoria del Sì produrrà un rafforzamento del governo, che condurrà
in porto la legislatura fino alle elezioni del 2018. Nient’altro. Mentre dalla
vittoria del No, chi trarrà vantaggio?
La vecchia sinistra, al più, riuscirebbe a precipitare il PD nel marasma:
un miserabile premio di consolazione. Forza Italia si illude di rilanciare il
suo leader ottantenne, ma il tempo lavora per Salvini e Meloni. Più di tutti trarrebbe
vantaggio il Movimento 5 Stelle. L’incubo di un governo grillino diventerebbe allora
imminente e concreto. Bell’affare.
mercoledì 5 ottobre 2016
Ma non esistono riforme "perfette"
Suggerisco a tutti la lettura del bel pamphlet che Marilisa D’Amico,
docente di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, ha scritto con Giuseppe
Arconzo e Stefania Leone: “COME cambia la COSTITUZIONE? – Guida alla lettura
della riforma costituzionale” (Giappichelli).
Il libretto (140 pagine) contiene in apertura un concetto
fondamentale, per valutare come orientarsi al referendum del 4 dicembre. I
giuristi lo chiamano “l’imperfezione dell’atto normativo”. La definizione è
altisonante ma il principio è semplicissimo: tutte le norme giuridiche, per
loro stessa natura, sono imperfette e dunque migliorabili. Di conseguenza,
tutti i sistemi costituzionali, nessuno escluso, sono esposti a problemi interpretativi
e a possibili conflitti. Lo stesso vale, ovviamente, per le proposte di
riforma.
I sistemi giuridici “perfetti” esistono solo in astratto. La
concezione stessa del diritto come “idea pura”, è pericolosa, tipica degli
Stati etici e dei sistemi totalitari. Bisogna sempre tenerlo presente, anche
quando si parla della Costituzione “più bella del mondo”.
A questo proposito, Marilisa D’Amico scrive parole illuminanti. E’
bene ricordare che nel dicembre del ’47, dopo lunghe discussioni e grandi
compromessi, si decise infine di approvare il testo così come era stato
licenziato dalla Commissione (salvo modifiche di bella forma) lasciando aperte
un sacco di questioni, anche di fondamentale importanza, che infatti si
sarebbero risolte solo anni o decenni più tardi. (Per la verità, alcune sono
aperte ancora oggi, ma lasciamo perdere).
Se i Padri Costituenti, nel ’47, avessero deciso di respingere quel
testo, con la motivazione che esso lasciava molte questioni aperte e che avrebbe
creato numerosi problemi, la Costituzione “più bella del mondo” non avrebbe mai
visto la luce. Nessuna Costituzione infatti può essere approvata con la
certezza assoluta che essa funzionerà alla perfezione. Né esiste una
Costituzione che possa piacere a tutti.
Viceversa, in questi giorni, ascoltiamo spesso ripetere questa
litania: che nella riforma Renzi-Boschi non sono ben definite le prerogative del
nuovo Senato, rispetto agli altri poteri dello Stato. Si tratta di una
motivazione evidentemente strumentale, avanzata con grande superficialità, o spesso
in malafede, da personaggi interessati a nascondere dietro ragioni tecniche e giuridiche,
la propria ostilità - tutta politica - nei confronti del governo.
Sia ben chiaro: essere pregiudizialmente ostili al governo è
legittimo, ci mancherebbe. Altrettanto legittimo è criticare una riforma poco
convincente. Assai meno legittimo è invece sollevare grandi cortine fumogene, e
trincerarsi dietro a grandi luminari e cattedratici ottuagenari, per nobilitare
calcoli di partito e ambizioni personali inconfessabili.
lunedì 3 ottobre 2016
Toh, Asor Rosa vota No
Sul Corriere di oggi, a pagina 4, Alberto Asor Rosa difende le ragioni
del No al referendum sulla riforma costituzionale. Non mi stupisce affatto.
Asor Rosa (classe 1933) è uno dei peggiori intellettuali “organici” che il
comunismo italiano abbia prodotto in 70 anni di storia - e non è un confronto fra
pochi. “Ma questa è storia vecchia”, direte voi. Mica tanto.
Appena cinque anni fa, nel 2011, Asor Rosa invocava su Il Manifesto “una
prova di forza proveniente dall’alto”, con la proclamazione dello stato di
emergenza, l’intervento di Polizia e carabinieri, e poi il “congelamento delle
Camere” e “la sospensione di tutte le immunità parlamentari”, e poi ancora “nuove
regole elettorali stabilite d’autorità dalla magistratura”. Insomma un colpo di
Stato stalinista in piena regola. Oggi costui dichiara al Corriere che il
progetto riformatore di Renzi sarebbe “pericoloso per la democrazia” (caspita,
questa non l’avevamo mai sentita).
“Ma - direte ancora voi - il fatto che Asor Rosa sia per il No non
dimostra nulla. Con il referendum non c’entra”. E invece c’entra, secondo me.
Primo, perché questa adesione al fronte del No è emblematica; secondo, perché ancor
più significative sono le motivazioni addotte. Anche in questa intervista,
infatti, il vecchio stalinista non rinuncia a dare prova della sua proverbiale disonestà
intellettuale.
In apertura Asor Rosa premette: “Non sono un costituzionalista, dunque
i miei apprezzamenti hanno ben poco di tecnico”. Poi conclude la stessa
intervista così: “Bisogna spostare il dibattito sul merito della riforma. Anche
se Renzi, che è una figura di estrema mediocrità politico-culturale, tende a
focalizzare tutto su se stesso”. Chiaro, no? Asor Rosa emette il suo giudizio tutto
politico, non tecnico; ma se non si entra nel merito della riforma, la colpa è
di Renzi.
Sapete quale dovrebbe essere, secondo Asor Rosa, il compito “dell’uomo
della sconfitta”, cioè dell’intellettuale organico rimasto orfano di partito e
ideologia, dopo il fallimento del comunismo? “Obbligare l’Occidente a vedersi,
e dunque aiutarlo a dissolversi” (A. Asor Rosa, “La guerra”, Einaudi, Torino
2002, pag.151). Avete capito? Per questo, secondo Asor Rosa, bisognerebbe
votare No: per aiutare le democrazie liberali non a riformarsi, ma a suicidarsi,
come piacerebbe a lui.
Lui che, ancora a proposito di Renzi, scrive che “sta giocando su un
abbassamento generale del tessuto politico e culturale italiano”. Senti chi
parla, verrebbe da dire. Per fortuna, qualcuno che ha letto qualche libro e che
si ricorda bene di Alberto Asor Rosa, ancora c’è.
domenica 2 ottobre 2016
Nasce oggi il mio nuovo blog
Care amiche, cari amici, annuncio con questo mio primo editoriale il
lancio del mio nuovo blog, LITTA CONTINUA. Ho deciso infatti di tornare a
impegnarmi nel dibattito politico e culturale con interventi più meditati, più
puntuali, meno improvvisati e casuali.
L’occasione che mi induce a espormi nuovamente è il referendum
costituzionale.
Ho deciso di battermi a sostegno delle ragioni del SI’ alla riforma,
contro tutti i qualunquismi di destra e di sinistra, contro gli astrattismi
dottrinari e i calcoli faziosi, contro le invettive della demagogia e del
populismo.
Cercherò di fare fronte a questo impegno con cadenza quasi quotidiana,
a partire dai prossimi giorni.
Intanto, grazie anticipatamente a tutti coloro che vorranno seguirmi,
che mi aiuteranno a fare conoscere questo blog, che mi onoreranno delle loro
opinioni e delle loro critiche.
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