Qui di seguito, la mia recensione di "Il sionismo americano fra le due guerre mondiali", AA.VV. (Ed. Le Lettere) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di venerdì 29 settembre.
Tre
studiosi autorevoli e assai ben documentati esplorano un capitolo minore, o
meglio meno conosciuto, della storia epica del movimento sionista. Accanto al
più noto sionismo europeo – quello fondato da Herzl, guidato da Weizmann e
realizzato da Ben-Gurion – vi fu infatti un sionismo americano, che molto diede
all’altro non solo in termini finanziari, ma anche organizzativi, progettuali e
realizzativi. Leader carismatico e protagonista assoluto dell’ebraismo d’oltre
Atlantico fu Louis Brandeis, il primo ebreo americano a essere nominato membro
della Corte suprema.
Nella
prima parte, David Elber analizza le tappe fondamentali del percorso che porta
al riconoscimento internazionale del sionismo, dalla dichiarazione Balfour
(1917) ratificata da Wilson l’anno successivo, al trattato di Versailles (1919)
fino alla conferenza di Sanremo (1920) con il Mandato britannico per la
Palestina – “mandato”, ricorda Elber, conferito al preciso scopo di concorrere alla
creazione di una “National Home” per il popolo ebraico. Sono questi
passaggi a legittimare compiutamente la nascita di Israele, nell’ambito della
comunità internazionale. Un percorso irto di ostacoli, se solo si pensa che il
laico e anticlericale Clemenceau, vedendo minacciati gli interessi francesi in
Medio oriente, non riesce a dire a Weizmann altro che queste parole: “Noi
cristiani non possiamo perdonare gli ebrei per avere crocifisso Cristo”.
Nella
seconda parte, Antonio Donno ricostruisce le vicende che portano allo scontro
fra i sionisti delle due sponde dell’Atlantico. Brandeis è il tipico ebreo
americano assimilato: efficientista, economicista, concreto e pragmatico. Egli
scopre il sionismo dopo i cinquant’anni, un’autentica rivelazione, e riversa
nel movimento le sue grandi doti organizzative e gestionali. Per Brandeis,
sionismo e americanismo sostanzialmente coincidono: una visione piuttosto
ingenua, alla luce della tragica
condizione degli ebrei europei. Al termine della prima guerra mondiale,
Brandeis ha l’immenso merito di convincere Wilson a sottoscrivere ufficialmente
la dichiarazione Balfour, malgrado l’opposizione del segretario di Stato
Lansing.
Infine, Giuliana Iurlano analizza a fondo le personalità di Weizmann e Brandeis, e il loro inevitabile “scontro fra giganti” nella convenzione di Baltimora (1920) che porterà a un indebolimento del sionismo mondiale per oltre un decennio. Brandeis viene criticato per essere un “silent leader”, assente nei momenti cruciali a causa del suo prestigioso incarico, e viene sfiduciato insieme a tutta la sua corrente. A posteriori, tuttavia, molte delle sue proposte e indicazioni saranno riprese e recepite nella costruzione dello Stato ebraico. Sarà proprio Weizmann a definire le sue differenze con Brandeis come “un revival, in una nuova forma e in un nuovo paese, della vecchia scissione fra Est e Ovest”, nell’ebraismo e nel sionismo.