(9) Questa estate in vacanza ho letto “Nella casa del pianista”, di
Jan Brokken. E’ la biografia struggente e tragica di Youri Egorov (1954-1988)
il grande talento pianistico russo fuggito dall’Unione sovietica nel 1976 e
morto di Aids ad Amsterdam, a soli 34 anni. Anche da questa storia, se mai ve
ne fosse bisogno, si evince quanto sia stata tremenda e oppressiva la dittatura
comunista, specie nei confronti della cultura e dell’arte. Il ventiduenne
Egorov, solo e sperduto in Occidente, riesce ad arrivare al successo grazie
alle sue straordinarie doti musicali, fino a diventare ricco e famoso,
celebrato ovunque come una star internazionale. Ma come spesso accade, al
talento creativo e artistico si accompagna un’indole sregolata e
autodistruttiva. Egorov, introverso e insofferente, conduce una vita dissoluta
fra omosessualità, alcol, droghe, frequentazioni casuali e pericolose, fino a
contrarre la malattia che dilaga negli anni ’80 e che lo conduce alla morte, un
anno prima della caduta del Muro. Brokken è stato uno degli amici più intimi di
Egorov, lo ha frequentato a lungo e da vicino, lo ha molto apprezzato come
pianista e amato come persona, essendone ricambiato. Ne scaturisce un libro
delicato, pieno di dolcezza e sensibilità nei confronti di un ragazzo geniale e
tormentato. “Nella casa del pianista” è davvero un buon libro, all’altezza
degli altri più famosi di Brokken, “Anime baltiche” e “Il giardino dei
cosacchi”. Nei prossimi giorni leggerò “Bagliori a San Pietroburgo”, in uscita
il primo settembre sempre per le edizioni Iperborea, il cui formato a molti non
piace e invece io adoro. (continua)
mercoledì 30 agosto 2017
martedì 29 agosto 2017
“Onde”, di Eduard von Keyserling
(8) Questa estate in vacanza ho letto “Onde”, di Eduard von Keyserling,
in una vecchia edizione del 1988, quando fu pubblicato in Italia per la prima
volta. (Nella quarta di copertina è scritto che l’autore è nato in Curlandia, “una
regione dell’attuale Lettonia sovietica”).
Keyserling è un tipico esponente dell’aristocrazia tedesco-baltica; di
lui parla infatti Jan Brokken nel suo bellissimo “Anime baltiche” (Iperborea). E’
un esponente “minore” del decadentismo tedesco, per la precisione si inserisce
- per le lunghe descrizioni del paesaggio e per le scelte innovative e
originali nell’aggettivazione - nell’ambito del cosiddetto “impressionismo
letterario”.
“Onde” è una storia di conformismo e convenzioni sociali, di
sentimenti e tradimenti; è un libro sia romantico che trasgressivo: decadente,
appunto. Protagonista è la bellissima Doralice, che ha divorziato con grande
scandalo da un vecchio, ricco e nobile signore per convivere more uxorio con il
suo amante, pittore spiantato. La vicenda si svolge tutta durante un’estate in
villeggiatura su una spiaggia del Mare del Nord. Doralice esercita il suo
fascino irresistibile sugli uomini di tutte le età e sconvolge l’equilibrio moralistico
di una famiglia conservatrice. Le onde del mare non assisteranno indifferenti
alle vicende umane.
Von Keyserling ricorda molto Fontane (vedi 5) ma è più moderno,
novecentesco. Fu grande amico di Rainer Maria Rilke e molto apprezzato da
Thomas Mann. Di lui consiglio anche “Afa” (Adelphi) breve e struggente. (continua)
lunedì 28 agosto 2017
“Per i sentieri dove cresce l’erba”, di Knut Hamsun
(7) Questa estate in vacanza ho letto “Per i sentieri dove cresce l’erba”,
di Knut Hamsun (Fazi Editore). Per molti versi, è un libro deludente. Devo
confessare, vergognosamente, che non avevo mai letto nulla di Hamsun, premio
Nobel per la letteratura nel 1920. Volendo colmare questa lacuna, sono partito
dal libro sbagliato: le memorie che scrisse, ormai prossimo ai 90 anni, nel
1948. Un resoconto molto circostanziato sull’internamento e processo cui fu
sottoposto in Norvegia dopo la guerra, per avere simpatizzato con i nazisti
durante l’occupazione del suo paese.
Per quanto possa sembrare ingiusto rinchiudere in un ospedale
psichiatrico un uomo molto anziano e illustre letterato, che non aveva commesso
reati specifici, bisogna pur dire che la sua linea di difesa fu squallida
e ridicola. All’accusa di antisemitismo, rispose di avere sempre avuto “tanti
amici ebrei”: proprio così. E naturalmente di non aver mai saputo nulla dei
campi di sterminio. Quest’ultimo particolare sarà anche vero, ma il furore
antiebraico dei nazisti era arcinoto a tutti e un intellettuale di quel livello
non può accampare scuse. Sostenne anche di avere scritto durante il regime
di occupazione militare, mentre Hitler annunciava “un ruolo importante per la
Norvegia” nella nuova Europa germanica. Sarebbe forse questa una circostanza
attenuante? Hamsun avrebbe potuto e dovuto tacere, chiudendosi in un duro
silenzio, invece di indirizzare al Fuhrer lettere
ignobili. Il suo collaborazionismo fu colpevole ed egli ben meritò la forte e pubblica sanzione morale.
La vicenda giudiziaria, comunque interessante sotto il profilo
storico, è condita nel libro da una serie di considerazioni miti, ricordi e
racconti che stemperano la drammaticità della situazione con grande sapienza
letteraria. Hamsun rimane comunque un grandissimo scrittore, le sue idee
politiche e i suoi errori nulla tolgono alla forza narrativa dei suoi romanzi.
Ne leggerò altri. Se avete suggerimenti, sono bene accetti. (continua)
domenica 27 agosto 2017
“Gennaio senza nome”, di Max Aub
(6) Questa estate in vacanza ho letto “Gennaio senza nome”, di Max Aub
(1903 – 1972). E’ una raccolta di racconti sparsi e di memorie su guerra civile
spagnola, campi di prigionia e dintorni, vissuti e narrati con forte sofferenza
da un testimone d’eccezione. Aub è considerato scrittore “spagnolo” perché effettivamente
usa il castigliano, ma la sua biografia rappresenta la personificazione vivente
della Grande Tragedia Europea. Suo padre era un ebreo tedesco, sua madre un’ebrea
francese, entrambi secolarizzati e non praticanti. Nasce in Francia, ma allo
scoppio della prima guerra mondiale il padre è costretto a trasferirsi in Spagna con la
famiglia. Qui vive la l’assurda tempesta di odio ideologico della
guerra civile, prova generale di quanto sarebbe accaduto poco dopo su larga
scala. Combatte, è sconfitto, passa i Pirenei, viene internato con gli "indésirables" nei campi di
prigionia, prima in Francia poi in Algeria: un contesto di violenza, degrado, fame e morte
che poco ha da invidiare ai lager nazisti. Solo nel ’42 riesce a riparare in
Messico, dove trascorrerà il resto della vita scrivendo drammi, romanzi, saggi,
sceneggiature e poesie. Questa antologia raccoglie otto racconti delicati e strazianti,
un diario doloroso fra franchismo e stalinismo, guerra civile e guerra europea,
fino alla libertà ritrovata e alla necessità impellente di raccontare. Una
prosa bellissima, struggente, da non perdere. (continua)
sabato 26 agosto 2017
“Il conte Petoefy”, di Theodor Fontane
(5) Questa estate in vacanza ho letto “Il conte Petoefi”, di Theodor
Fontane (1819 – 1889) forse il maggior scrittore tedesco della seconda metà
dell’800. Il celeberrimo “Effi Briest” è unanimemente considerato il suo
capolavoro: Effi è una specie di “cugina” prussiana di Madame Bovary e Anna
Karenina. Dello stesso autore ho letto tempo addietro anche “Cécile”, incentrato
- come l’altro - sui temi ricorrenti in Fontane: la psicologia femminile, il
tradimento, il duello. Fontane appartiene alla ristretta cerchia degli “uomini
che hanno capito le donne”, e non l’ho detto io.
Il conte Petoefy è un vecchio aristocratico, ama l’arte, la musica, la
cultura, la conversazione raffinata. Si invaghisce di una giovane attrice di
teatro, brillante e affascinante, e la chiede in sposa: le offre la nobiltà e la
ricchezza, in cambio non chiede altro che di godere serenamente della sua
compagnia. La rispetterà sempre e lei dovrà sentirsi completamente libera, vincolata
solo alla tutela del decoro. La conduce nel suo magnifico castello sulla riva
di un grande lago, ma è fin troppo chiaro che la disparità fra i due è incolmabile
e la storia finirà inevitabilmente in tragedia. E’ un romanzo molto
ottocentesco, lento e spesso. Molte situazioni si intuiscono senza essere esplicitate.
Le parti scabrose non sono mai descritte, ma lasciate immaginare al lettore.
Per la cronaca: Effi Briest è stato anche un delicato film di Rainer
Fassbinder (1972) con protagonista una giovane Hanna Schygulla. Un film “fotografico”,
in bianco e nero, tutto primi piani e dissolvenze. Ottocentesco, appunto. (continua)
mercoledì 23 agosto 2017
“O Dio onnipotente, rendici l’ignoranza!”
Indovinate chi ha scritto questa frase …? Niente meno che Jean-Jacques
Rousseau, colui al quale è intestata la famosa “piattaforma” del Movimento 5
Stelle. Di solito, in questo blog, pubblico esclusivamente cose scritte da me, ma
stasera farò un’eccezione. Leggete bene, qui di seguito, le belle
considerazioni di Pietro Di Muccio De Quattro. La controversia fra Hume e Rousseau è la stessa che oppone, da sempre, i
liberali agli illiberali, la società aperta ai suoi nemici. Rousseau si scaglia
contro l’economia (di cui non capiva nulla) e contro la ricchezza, lo sviluppo,
il mercato, persino contro l’arte, fino a invocare appunto “l’ignoranza, l’innocenza,
la povertà”. Che bella cosa, la povertà. Tutti poveri, tutti felici. Rousseau infatti
ammira Sparta, propone l’abolizione del denaro e il ritorno al baratto.
Rousseau vuole “il regno della virtù”, per questo piace tanto agli “onesti” grillini: un movimento illiberale, totalitario, pericoloso. Leggete bene, fino in fondo.
I NUOVI ANTIMODERNI
di Pietro Di Muccio de Quattro
Se ne avessi l’autorità, come ne ho l’ardire, suggerirei a Massimo
Fini, del quale “Il Fatto Quotidiano” ha ospitato un paginone su “Rousseau e la
lotta al consumismo”, la lettura del libro, fresco di stampa, “A proposito di
Rousseau”. L’autore è David Hume, nientemeno: uno che Rousseau lo conosceva fin
troppo bene. Questo libro, un gioiello di profondità e leggerezza, arguzia e
gravità, pubblicato da Rubbettino, traduce l’originale inglese “Un conciso e
genuino resoconto della disputa tra il Signor Hume e il Signor Rousseau: con le
lettere che si scambiarono durante la loro controversia” del 1766.
L’articolo di Fini ha per occhiello “Illuministi”. Ma quanto diversi
tra loro! Hume, come lui dice di se stesso, era mite, socievole, aperto,
brioso, padrone del suo carattere, insensibile all’inimicizia e moderato nelle
passioni. Rousseau, invece, bontà sua, si descrive così: “Sento il mio cuore e
conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho conosciuto. Mi
sono sempre creduto e mi credo ancora, tutto sommato, il migliore degli
uomini”.
La disputa in questione, pur appartenente al “Secolo dei Lumi”, è
tuttavia strettamente attuale perché le citazioni e l’entusiastico commento di
Fini riguardo al “Discorso sulle scienze e sulle arti” di Rousseau ripropongono
un tipo di attacco alla “Modernità” che in modi e mezzi aggiornati vediamo
tutt’oggi scagliare sotto i nostri occhi. Il paradosso di tale attualità sta in
questo, che Fini esalta l’intemerata contro l’economia di un pensatore come
Rousseau che era (ed è) noto per la sua ignoranza in materia. Massimo Fini
individua “la straordinaria modernità di Rousseau, l’antimoderno” nella
condanna della ricchezza, dello sviluppo economico, del mercato libero, e cita
la preghiera di Rousseau: “O Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli
spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti e rendici l’ignoranza,
l’innocenza, e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che
sian preziosi al tuo cospetto” (sic!).
Hume e Rousseau non erano profondamente diversi soltanto nel
carattere, ma anche nel pensiero. Hume credeva nella proprietà privata, nel
“governo limitato”, nella libertà sotto la legge, nella cooperazione
volontaria, nella moneta e nello scambio, nelle arti e nella raffinatezza.
Rousseau sulla proprietà privata esprime giudizi contraddittori, dove
l’accetta, dove la condanna. Ma la questione di fondo, come sottolinea Lorenzo
Infantino, “è che il modello di società a cui Rousseau è rimasto sempre fedele
è quello del collettivismo spartano. Nel ‘Discorso sulle scienze e le arti’ ha
definito Sparta una ‘repubblica di semidei più che di uomini’. Il modello
spartano è reiteratamente proposto nell’improvvida lettera a d’Alembert. Sparta
è il punto di riferimento nel ‘Progetto di costituzione per la Corsica’ dove
vengono addirittura proposte l’autarchia e l’abolizione del denaro, nonché il
calcolo in natura. L’adozione di Sparta come proprio modello sociale e il
rifiuto del denaro, che è il mezzo della libertà individuale di scelta,
indicano chiaramente l’obiettivo che Rousseau si prefiggeva. Quanto scritto
contro la scienza, le arti, la grande città, e il lusso ne è un mero
complemento”.
Hume aborriva il ‘governo popolare’ (si direbbe il populismo di oggi!)
perché amava la costituzione inglese, “se non il migliore sistema di governo,
perlomeno il più completo sistema di libertà mai visto e conosciuto dal genere
umano”, e temeva il potere illimitato e vessatorio. Rousseau negava che il
popolo inglese fosse libero perché “i deputati del popolo non sono né possono
essere i suoi rappresentanti; nelle antiche repubbliche, e anche nelle
monarchie, mai il popolo ha avuto rappresentanti, la stessa parola era
ignorata”.
Ognuno può capire da questi semplici accenni a quella celebre
controversia tra Hume e Rousseau (celebre perché in Europa erano celebri i
disputanti e dunque lo fu la disputa) che la “volontà generale” di Rousseau,
messa al servizio della sua ossessione di edificare “il regno della virtù”
redimendo il mondo dal male, è un terribile pericolo immanente nella politica.
Pure oggi, sebbene equivocato e indefinito, questo pericolo è davanti a noi,
benché i nuovi antimoderni non siano che orecchianti, anche inconsapevoli, del
vecchio Ginevrino.
martedì 22 agosto 2017
"Chi di noi", di Mario Benedetti
(4) Questa estate in vacanza ho letto “Chi di noi”, di Mario
Benedetti, breve romanzo d’esordio (1953) di quello che poi verrà considerato
il più importante scrittore uruguayano del Novecento (autore fra l’altro di “La
tregua”). “Chi di noi” è un piccolo gioiello, incentrato sulla figura del
triangolo amoroso. Miguel è un ragazzo introverso, con scarsa considerazione di
sé. Ama Alicia, ma sembra che lei sia affascinata da Lucas, assai più brillante
ed estroso. Miguel è rassegnato a soccombere, quando sorprendentemente Alicia
decide di sposare lui e non l’altro. Molti anni dopo, il diario di Miguel, una
lettera di Lucas e il racconto finale di Alicia ci regalano un intreccio di
straordinaria sensibilità psicologica e letteraria. Fra l’altro, questa
struttura narrativa ricorda molto “Il fucile da caccia”, del giapponese Yasushi
Inoue (Adelphi) un altro romanzo breve che io ho amato molto. Queste 115 pagine
valgono molto di più dei 12 euro del prezzo di copertina, ha fatto benissimo Nottetempo
a ripubblicarlo l’anno scorso. Leggetelo e regalatelo: farete bella figura. (continua)
lunedì 21 agosto 2017
"Il libro delle parabole", di Per Olov Enquist
(3) Questa estate in vacanza ho letto “Il libro delle parabole”, di
Per Olov Enquist (Iperborea). O meglio: ho tentato di leggerlo per due o tre
giorni, ma poi, dopo circa 80 pagine, ho deciso che proprio non ne valeva la
pena e l’ho piantato in asso. Una delusione cocente. Sono stato tratto in inganno,
colpevolmente, da Franco Cordelli, il critico letterario del Corriere della
Sera, che sul supplemento domenicale “La lettura” lo aveva collocato fra
migliori romanzi degli ultimi vent’anni (insieme a un’altra quindicina). Un
giudizio largamente esagerato, per un libro che io invece ho trovato mediocre e
insignificante. Suddiviso in nove brevi capitoli - chiamati “parabole” chissà
perché - che dovrebbero dare vita a un “romanzo d’amore”, come da sottotitolo, e invece costituiscono una trama farraginosa e incomprensibile, che risulta mortalmente noiosa. Pieno zeppo di punti di domanda e punti esclamativi, punti esclamativi
e punti di domanda: ma che modo di scrivere è mai questo? E dire che, di
Enquist, avevo molto amato “Il medico di corte”, il suo libro più celebre, un bel romanzo storico ambientato alla corte di Danimarca alla fine del Settecento. Farò un nuovo
tentativo con “Un’altra vita”, la sua autobiografia, e spero proprio di tornare
al giudizio iniziale. (continua)
domenica 20 agosto 2017
"Un cuore così bianco", di Javier Marìas
(2) Questa estate in vacanza ho letto “Un cuore così bianco”, di
Javier Marìas. Mi è sembrato un romanzo felice e ben riuscito, forse il
migliore di Marìas, del quale avevo letto “Domani nella battaglia pensa a me” e
non lo avevo trovato un granché. Mi erano piaciute molto le prime 80 pagine,
poi il romanzo si era, per così dire, perso per strada. Questo, del ’92, è
precedente e ha decretato il successo dello scrittore spagnolo. Qui le
digressioni, anche se ampie, tornano poi ad alimentare la trama con efficacia e
il tutto si tiene, mentre nell’altro molte parti secondarie risultano
debolissime. Marìas di recente ha pubblicato “Così ha inizio il male” – tutti i
titoli dei suoi romanzi sono citazioni di Shakespeare – che io conto senz’altro
di leggere in un prossimo futuro. Vi farò sapere. (continua)
sabato 19 agosto 2017
"Sì", di Thomas Bernhard
(1) Questa estate in vacanza ho letto “Sì”, di
Thomas Bernhard. Un libro breve (140 pagine) ma di fortissimo impatto
psicologico. Di Bernhard (1931 – 1989) avevo letto l’anno scorso “Il
soccombente”. Bastano questi due romanzi a farmelo considerare uno dei migliori scrittori
di lingua tedesca del Novecento. Certo è una lettura impegnativa, a
volte capita di dover affrontare pagine e pagine senza un solo punto, quasi senza
punteggiatura. Un flusso travolgente, che ben esprime la tormentosa angoscia
dei personaggi. Lo consiglio a tutti. (Continua)
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