mercoledì 30 settembre 2020

Libia ebraica, AA.VV. (Salomone Belforte)

Qui di seguito, la mia recensione di "Libia ebraica"a cura di Jacques Roumani, David Meghnagi, Judith Roumani (Salomone Belforte, 500 pagine, 30 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di oggi.

Libia ebraica è un libro collettaneo, la raccolta di varie testimonianze e immagini fotografiche di un mondo millenario, oggi cancellato per sempre. Sulla base dei riscontri archeologici, le prime presenze ebraiche si registrano in Libia intorno al 300 avanti Cristo. Ne consegue che, al momento dell’invasione araba del Mahgreb, gli ebrei vivevano in quelle terre già mille anni prima dei conquistatori musulmani. Avevano vissuto, da minoranza religiosa, sotto il dominio di varie civiltà, con alterne vicende, sempre coniugando le tradizioni ebraiche con quelle specificamente locali. Nel XVI secolo fu la volta dei turchi ottomani, sotto i quali gli ebrei vissero nella condizione di “dhimmi” (protetti, cioè sottomessi, tassati e umiliati): un trattamento che durò fino al 1911, con l’occupazione italiana.

“L’impatto del mondo arabo con il colonialismo europeo fu per gli ebrei della regione una possibilità di emancipazione da una condizione secolare di oppressione, insicurezza e umiliazione” scrive David Meghnagi.

Le vicende più recenti, quelle del Novecento, sono narrate con sofferenza e passione. Nel 1943, dopo uno dei tanti rovesciamenti di fronte, circa 2600 ebrei sono deportati nel campo di concentramento di Giado, duecento chilometri a sud di Tripoli. Moriranno in 562 di malnutrizione, maltrattamenti, tifo. Molti altri saranno deportati in un viaggio della morte, dolorosamente narrato da Yossi Sucary nel libro “Benghazi – Bergen Belsen”.

La guerra finisce, ma non per gli ebrei: nel novembre del ‘45 un pogrom scatenato dagli arabi provoca 130 morti e centinaia di feriti e mutilati. La convivenza fra ebrei e musulmani, che durava da 13 secoli, passa da difficile a impossibile nell’arco di pochi anni. Alcuni arabi tuttavia si distinguono nell’aiutare le famiglie ebree amiche a nascondersi e a mettersi in salvo. Le testimonianze sono atroci:

“Poi di notte sentimmo delle urla, da ogni casa. Urla, urla, urla, tutti urlavano. C’era una bambina piccola (piange), le strapparono gli occhi di fronte a sua madre. Le avvolsero in un tappeto di paglia, lei e sua madre, versarono della benzina e le bruciarono. Li ho visti tutti. Non posso dimenticare”.

Tre anni dopo, nel ’48, segue un secondo pogrom, alla nascita di Israele. Stavolta però gli ebrei non si fanno trovare impreparati, anche grazie all’addestramento ricevuto dai soldati della Brigata Ebraica. Restano uccisi 19 ebrei e 92 arabi: gli ebrei libici hanno imparato a difendersi.

La comunità che contava ai tempi del censimento ottomano fino a 38.000 persone, è costretta ad andarsene. Più del 90% degli ebrei libici emigrano fra il ‘45 e il ’51. Ormai non ne restano più che 5.000, ma sono sorvegliati speciali e vivono nella paura. Nel ’67, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, re Idris dichiara di non essere più in grado di garantire la loro incolumità. Se ne vanno alla spicciolata anche gli ultimi, di notte, di nascosto, a mani vuote. Si dividono fra Israele e l’Italia, in particolare a Livorno. Meghnagi racconta questo doloroso epilogo con parole intense e sofferte.

martedì 22 settembre 2020

"Il grattacielo e il formichiere", di Carlo Gambescia

Qui di seguito, la mia recensione di Il grattacielo e il formichiere, di Carlo Gambescia (Edizioni Il Foglio, 95 pagine, 12 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 19 settembre.

Prende le mosse da una poesia di Montale, l’originalissimo pamphlet di Carlo Gambescia, alla ricerca di una possibile “Sociologia del realismo politico”.

“Che cos’è la realtà / il grattacielo o il formichiere / il Logo o lo sbadiglio”, recita il verso del poeta, offrendo così all’autore lo spunto per un’ardita metafora. “Può piacere o meno, ma la realtà si insinua tra i colossi di cemento armato, acciaio, vetro, luci e colori che sfidano il cielo (…) Per poi sfiorare – parliamo sempre della realtà – un mammifero, il formichiere, dall’aspetto curioso, per alcuni ripugnante, privo di denti, con una lingua lunghissima, vischiosa e filiforme”. Montale insegna che il grattacielo e il formichiere sono le facce della medaglia-realtà. Ma la realtà, avverte Gambescia, è soggetta a un fenomeno che la psicologia sociale chiama “dissonanza cognitiva”. Un ambientalista vedrà il grattacielo come una spregevole forma di innaturale tirannia funzionale; un economista, viceversa, vi scorgerà un mirabile esempio di architettura. Si tratta, a ben vedere, di etica dei princìpi ed etica della responsabilità, le due forme fondamentali del realismo secondo Max Weber.

Analogamente, sul terreno politico, Gambescia riferisce del dialogo (realmente avvenuto) fra due intellettuali liberali: il prof. A e il giornalista B. “Non mi pongo il problema di quanto siano liberali la Lega o Salvini o il PD - spiega il professore - Prendo atto dell’egemonia conquista da Salvini e lavoro affinché ci sia una gamba più liberale nella Lega”: etica della responsabilità, realismo da formichiere. Ma il giornalista non ci sta: “Un liberale ha il dovere di opporsi. Cercare di rendere più liberale Salvini è un alibi per schierarsi dalla parte del vincitore. I veri liberali non amano Putin”: perfetto esempio di etica dei princìpi, realismo del grattacielo. Il primo è un realismo “a quo”, il secondo “ad quem”.

Se guardiamo alla storia, prosegue l’autore, troviamo validi esempi di uomini politici che hanno saputo ottimamente coniugare questi due tipi di realismo: Lincoln, Bismark, Llyod George, Roosevelt, fra gli altri. Il realismo di Bismark era soprattutto “a quo”, quello di Cavour “ad quem”, cioè orientato ai princìpi. Gambescia sottolinea in particolare la difesa della democrazia formulata da Theodor Geiger: è indispensabile, a questo scopo, l’accettazione della “interdipendenza sociale”, concetto che costituisce un perfetto esempio di realismo politico.

Infine la raccomandazione più importante: “Solo l’arma dell’ironia può aiutarci a capire i pericoli dell’emotività politica”. Infatti l’ironia maieutica era l’arma prediletta da Socrate, il progenitore di tutti i realisti consapevoli.

giovedì 10 settembre 2020

"Il manifesto del rinoceronte", di Adam Gopnik (Guanda)

Qui di seguito, la mia recensione di "Il manifesto del rinoceronte - L'avventura del liberalismo", di Adam Gopnik (Guanda, 276 pagine, 20 euro) pubblicata su Il Foglio del 2 settembre scorso. L'articolo non appare nell'edizione on line del quotidiano.

Che cos’è il liberalismo? Da una sponda all’altra dell’Atlantico, le parole ingannano. Adam Gopnik, giornalista e saggista di grande popolarità, editorialista del New Yorker, è il più classico prototipo dell’intellettuale liberale americano. La sera dell’elezione di Donald Trump, nel novembre del 2016, egli intrattiene un tenero colloquio per rincuorare la figlia Olivia, diciassettenne ribelle piena di idealistico ardore. Gopnik si rende conto che il liberalismo offre scarso appeal agli occhi di un giovane, rispetto alle utopie dei visionari e alle critiche dei radicali. Perciò azzarda che il liberalismo si presenti sotto le sembianze di un rinoceronte: un animale all’apparenza tozzo, sgraziato, lento e pesante. Eppure il rinoceronte è anche un bestione simpatico, non aggressivo, meritevole di protezione, capace di grande forza e determinazione.

Proprio davanti alla gabbia di un rinoceronte, nella Londra dell’800, si incontravano clandestinamente due amanti d’eccezione: John Stuart Mill, filosofo liberale per eccellenza, e la sua adorata Harriet Taylor, antesignana del femminismo e del diritto di voto alle donne. Il liberalismo nasce così, dai sentimenti di simpatia, gentilezza, amore e compassione di esseri umani forti e miti. Accanto a costoro, Gopnik colloca Adam Smith, naturalmente, e prima ancora Montaigne; poi cita un’altra formidabile coppia di “libertini”: George Lewes e Mary Ann Evans, la scrittrice nota con lo pseudonimo di George Eliot; e moltissimi altri, per lo più di matrice anglo-sassone.

Il liberalismo sostiene la necessità di una riforma sociale, ma sempre imperfetta, e di una sempre maggiore tolleranza, ma non assoluta: per quella imperfezione non piace alla sinistra, per questa tolleranza non piace alla destra. “Da destra come da sinistra, le argomentazioni persuasive contro il liberalismo non mancano davvero”, ammette Gopnik. Per i conservatori, ad esempio, le società aperte sono troppo disordinate e pericolose. La corrente irrazionalistica e antiliberale attraversa tutto il Novecento, fino a pensatori e filosofi contemporanei come Patrick Deneen e Aleksandr Dugin, quest’ultimo noto come il “cervello di Putin”.

Sul fronte opposto, merita attenzione, per la sua stringente attualità, la nuova teoria cosiddetta “intersezionalista” (la coalizione di donne, neri, gay, latinos ecc.) vero e proprio surrogato ideologico dell’internazionalismo proletario di matrice marxista. Si tratta del tentativo, pericolosamente ambizioso, di offrire una teoria di campo unificata all’opposizione culturale ed economica radicale dell’Occidente. Secondo Gopnik, nel ventunesimo secolo esiste una tragica, duplice amnesia: “la destra tende ad agire come se l’Ottocento non fosse mai esistito, mentre la sinistra fa lo stesso con il Novecento”. Tuttavia “l’ingiustizia economica è indubbiamente emendabile nel contesto dell’ordine liberale”, è la conclusione dell’autore.

Insomma, il liberalismo non possiede il fascino esaltante delle grandi utopie, conta molti e mortali nemici, ma mantiene un quid incontestabile di superiorità morale. Basterà?

 


mercoledì 9 settembre 2020

"Addio Gary Cooper", di Romain Gary (Neri Pozza)

Qui di seguito, la mia recensione di "Addio Gary Cooper", di Romain Gary (Neri Pozza) pubblicata su Il Foglio del 22 agosto scorso. L'articolo non appare nell'edizione on line del quotidiano.

 Prosegue, da parte di Neri Pozza, la meritoria ripubblicazione dell’opera omnia di Romain Gary, uno degli scrittori francesi più interessanti e originali della seconda metà del Novecento.

“Addio Gary Cooper” è stato scritto fra il ’63 e il ’68, avverte l’autore, appartiene dunque al cosiddetto “periodo americano” di Gary, che fu – fra molte altre cose – anche console generale di Francia a Los Angeles, e che propone in questa occasione un romanzo per molti versi ispirato a Kerouac.

“Vuoi che te lo dica, Lenny? Gary Cooper è finito. Finito per sempre. Finita la storia dell’americano tranquillo, sicuro di sé e dei propri diritti, che è contro i cattivi e sempre per la giusta causa, che fa trionfare la giustizia e alla fine vince sempre. Addio, America delle certezze. Adesso c’è il Vietnam, le università che esplodono, i ghetti per i neri. Ciao, Gary Cooper”.

Un gruppo di giovani sciatori vive isolato in un impervio chalet sulle Alpi, chi per sfuggire ai tormenti esistenziali, chi per sottrarsi – è il caso di Lenny, il protagonista americano – alla guerra del Vietnam. I personaggi sono permeati da un infantilismo ribelle, a metà strada fra James Dean e Peter Pan. Sono cervellotici, lunatici, nevrotici, idealisti con un lessico tipico degli anni Sessanta. Alcuni sono artistoidi falliti e marginali, altri figli di papà che rifiutano i privilegi della società del benessere. Spesso danno vita a dialoghi impossibili.

“In questo periodo stanno inventando una nuova classe sociale: la gioventù. A che scopo? Per introdurre un diversivo nella vera lotta di classe, l’unica e sola. Stanno inventando una classe sociale della gioventù, all’interno della quale la borghesia e il proletariato dovrebbero solidarizzare. Un modo per neutralizzarci, insomma”.

Dopo una lunga ambientazione di sessanta pagine, il romanzo ha una svolta. Lenny scende dalla montagna e si stabilisce a Ginevra, in cerca di quattrini. Qui conosce la dolce e bellissima Jess e il libro assume le caratteristiche tipiche di una storia d’amore, dai contorni però molto enigmatici e inquietanti. La giovane coppia entra in contatto con la malavita organizzata e scherza con il fuoco, fino a farsi coinvolgere in un oscuro traffico di denaro sporco: un gioco troppo grande e pericoloso, per due giovani innamorati e apparentemente molto ingenui.

“Lui tirò un sospiro di sollievo. – Oh, per un momento ho avuto paura. - Che cos’ha contro la psicologia? - Niente… Ma quando sento odore di psicologia, cambio strada, tutto qui”.

Fortunatamente per loro, Gary è un grande romanziere, infinitamente più intelligente e scaltro dei suoi personaggi, e riuscirà a sorprendere il lettore con un finale mozzafiato e pieno di verve, in perfetto stile Grand Guignol.


martedì 8 settembre 2020

"Elogio del petrolio", di Massimo Nicolazzi (Feltrinelli)

 La mia recensione di Elogio del petrolio, di Massimo Nicolazzi (Feltrinelli, 300 pagine, 19 euro), pubblicata sul quotidiano Il Foglio del 4 agosto scorso. Il testo non appare nell'edizione on line.

Massimo Nicolazzi è un avvocato, con una lunga carriera ai vertici di alcune fra le più importanti compagnie energetiche internazionali. Ma qui è autore di un libro che tratta di tutto, ad esclusione dei noiosi e pedanti aspetti giuridici e normativi.

“Elogio del petrolio” è un bel saggio di antropologia, storia economica, demografia, scienza e altro ancora, scritto in prosa brillante, divertente e ironica. Un testo divulgativo, che ci narra dell’energia “dal mammut all’auto elettrica” e ci informa di molte tecnicità, aiutandoci a riflettere su una questione cruciale della nostra epoca.

Il libro è diviso in tre parti. La prima è un interessante excursus del cammino umano, dal paleolitico alla rivoluzione industriale. La seconda è dedicata a Sua Maestà il petrolio (e al suo fratello minore, il gas). L’autore stronca senza mezzi termini le teorie del cosiddetto “picco del petrolio”, una tipica costruzione mentale priva di riscontri empirici; e liquida altrettanto nettamente l’ipotesi del “ricatto energetico”, rimasta impressa nell’immaginario collettivo dopo il traumatico embargo del 1973. I decenni successivi parlano semmai di embarghi a rovescio, imposti dai paesi consumatori ad alcuni produttori, senza significative conseguenze sul prezzo, come dimostrano gli esempi odierni di Libia, Venezuela e Iran.

Infine Nicolazzi affronta gli argomenti di bruciante attualità: il riscaldamento globale, le fonti rinnovabili, l’abbandono dei combustibili fossili. Anche se questi ultimi dovessero rivelarsi sufficienti per i prossimi 200 anni, l’innalzamento di livello dei mari, l’aumento della temperatura, l’inquinamento atmosferico ci impongono di intraprendere una “transizione energetica”. L’autore sembra propendere per la tesi della responsabilità umana, come causa dei cambiamenti del clima.

“Il nostro risk management assomiglia a un modello semplificato di scommessa di Pascal. Se Dio non esiste, a comportarci come se esistesse abbiamo poco da perdere; ma se esiste e ci comportiamo come se non esistesse, perdiamo tutto”. Lo stesso ragionamento dovremmo applicare ai fenomeni che stiamo studiando, anche se “non hanno nulla di soprannaturale”.

Le strade attualmente percorribili sono note, ma impervie e incerte: la riforestazione di vaste aree, il minor ricorso agli allevamenti bovini, l’insistenza sulle fonti rinnovabili quali eolico, solare, biogas.

“Cambieremo primo o poi il modo di addomesticare energia”, e dovremo “provare a praticare un poco di noiosissimo riformismo atmosferico”. Con un’avvertenza, però: tassare i fossili per finanziare le rinnovabili può portare a un iniquo aumento delle tariffe, che penalizzerebbe i ceti meno abbienti e potrebbe portare a una crisi di consenso.