Qui di seguito, la mia recensione di "Killing Orders", di Taner Akçam (Guerini & Associati) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di oggi.
E’
molto duro, in Turchia, il mestiere dello storico. Nel 1976 Taner Akçam è
incarcerato, processato e condannato a dieci anni di carcere, per avere usato
il termine “genocidio”, reato di vilipendio nazionale, in relazione allo
sterminio degli armeni. Riesce miracolosamente a fuggire, ottiene asilo
politico in Germania, finisce a insegnare storia in una università americana. Al
rientro in Turchia, molti anni dopo, Akçam non rinuncia però al suo antico
pallino, riprende le ricerche con grande impegno, fino alla pubblicazione di
questo libro, con cui - ove mai ve ne fosse bisogno – egli chiude, una volta
per tutte, i conti con il negazionismo turco.
Killing
Orders contiene la cosiddetta “pistola fumante”, la prova regina che i famigerati
telegrammi con cui Talat Pasha, l’uomo forte dei Giovani Turchi, disponeva la
completa cancellazione di un popolo, erano e restano inoppugnabilmente
autentici.
Il
saggio è incentrato sulle “memorie” di Naim Efendi, un funzionario ottomano che
ebbe un ruolo nelle deportazioni, e che poi vendette il prezioso materiale
documentale all’intellettuale armeno Aram Adonian, scampato per caso al Metz
Yeghern (il “Grande Male”, come gli armeni chiamano il genocidio). Contro questa
antologia di 52 documenti, il governo turco ha opposto un fuoco di sbarramento
tanto ostinato quanto risibile, tramite in particolare due personaggi non
qualificati – tali Orel e Yuca – che l’autore mette alla berlina senza fatica.
Questo
tentativo di falsificazione, incentrato su tre tesi - non è mai esistito nessun
funzionario di nome Naim Efendi; non esiste nessun memoriale; i documenti in
questione sono stati creati ad arte dagli armeni – viene smontato da Akçam pezzo
per pezzo: l’autenticità delle fonti viene dimostrata inoppugnabilmente, con la
pignoleria del ricercatore e l’autorevolezza del grande storico.
I
documenti in questione – questa l’argomentazione centrale – sono perfettamente
coerenti con tutti i documenti analoghi, contenuti negli immensi “Archivi
ottomani”, ora disponibili al grande pubblico. Se quei documenti fossero falsi,
allora anche tutti gli archivi lo sarebbero. Tecnicamente, gli armeni non
avrebbero mai potuto riprodurli, poiché gli “ordini di uccisione” venivano
diramati tramite codici cifrati, poi decodificati e trascritti, infine eseguiti
dalla macchina genocidaria.
Nei
sui telegrammi, Talat Pasha raramente nomina il popolo che vuole annientare, usa
espressioni come “alcuni noti individui”, oppure “certe persone conosciute”, e sempre
minaccia, allude, dissimula, secondo la plurisecolare ipocrisia della
dominazione ottomana.
“Si suggerisce che il trattamento, comunicato in precedenza, da riservarsi alla sola popolazione maschile di alcuni individui noti, venga esteso anche alle loro donne e ai loro figli, e che se ne occupino funzionari affidabili”. E ancora: “Non è necessario spendere inutilmente risorse per nessuno dei bambini abbandonati o orfani di certe persone conosciute, che in futuro creeranno solo altri danni e problemi allo Stato”.