mercoledì 30 dicembre 2020

Genocidio armeno: ecco le prove

Qui di seguito, la mia recensione di "Killing Orders", di Taner Akçam (Guerini & Associati) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di oggi. 

E’ molto duro, in Turchia, il mestiere dello storico. Nel 1976 Taner Akçam è incarcerato, processato e condannato a dieci anni di carcere, per avere usato il termine “genocidio”, reato di vilipendio nazionale, in relazione allo sterminio degli armeni. Riesce miracolosamente a fuggire, ottiene asilo politico in Germania, finisce a insegnare storia in una università americana. Al rientro in Turchia, molti anni dopo, Akçam non rinuncia però al suo antico pallino, riprende le ricerche con grande impegno, fino alla pubblicazione di questo libro, con cui - ove mai ve ne fosse bisogno – egli chiude, una volta per tutte, i conti con il negazionismo turco.

Killing Orders contiene la cosiddetta “pistola fumante”, la prova regina che i famigerati telegrammi con cui Talat Pasha, l’uomo forte dei Giovani Turchi, disponeva la completa cancellazione di un popolo, erano e restano inoppugnabilmente autentici.

Il saggio è incentrato sulle “memorie” di Naim Efendi, un funzionario ottomano che ebbe un ruolo nelle deportazioni, e che poi vendette il prezioso materiale documentale all’intellettuale armeno Aram Adonian, scampato per caso al Metz Yeghern (il “Grande Male”, come gli armeni chiamano il genocidio). Contro questa antologia di 52 documenti, il governo turco ha opposto un fuoco di sbarramento tanto ostinato quanto risibile, tramite in particolare due personaggi non qualificati – tali Orel e Yuca – che l’autore mette alla berlina senza fatica.

Questo tentativo di falsificazione, incentrato su tre tesi - non è mai esistito nessun funzionario di nome Naim Efendi; non esiste nessun memoriale; i documenti in questione sono stati creati ad arte dagli armeni – viene smontato da Akçam pezzo per pezzo: l’autenticità delle fonti viene dimostrata inoppugnabilmente, con la pignoleria del ricercatore e l’autorevolezza del grande storico.

I documenti in questione – questa l’argomentazione centrale – sono perfettamente coerenti con tutti i documenti analoghi, contenuti negli immensi “Archivi ottomani”, ora disponibili al grande pubblico. Se quei documenti fossero falsi, allora anche tutti gli archivi lo sarebbero. Tecnicamente, gli armeni non avrebbero mai potuto riprodurli, poiché gli “ordini di uccisione” venivano diramati tramite codici cifrati, poi decodificati e trascritti, infine eseguiti dalla macchina genocidaria.

Nei sui telegrammi, Talat Pasha raramente nomina il popolo che vuole annientare, usa espressioni come “alcuni noti individui”, oppure “certe persone conosciute”, e sempre minaccia, allude, dissimula, secondo la plurisecolare ipocrisia della dominazione ottomana.

“Si suggerisce che il trattamento, comunicato in precedenza, da riservarsi alla sola popolazione maschile di alcuni individui noti, venga esteso anche alle loro donne e ai loro figli, e che se ne occupino funzionari affidabili”. E ancora: “Non è necessario spendere inutilmente risorse per nessuno dei bambini abbandonati o orfani di certe persone conosciute, che in futuro creeranno solo altri danni e problemi allo Stato”.