giovedì 29 aprile 2021

"L'Armenia perduta", di Aldo Ferrari

Qui di seguito, la mia recensione di "L'Armenia perduta", di Aldo Ferrari (Salerno Editrice) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 24 aprile, nella ricorrenza del genocidio del popolo armeno.

Nel tentativo di opporsi alla cancellazione di ogni residua memoria dell’esistenza degli armeni, Aldo Ferrari intraprende un lungo viaggio nei luoghi dell’Armenia storica, cioè nei territori orientali della penisola anatolica: montagne, valli e città dai quali uno dei popoli più antichi della terra è stato spazzato via brutalmente, in un genocidio prima sanguinario poi culturale.

“Numerosissime testimonianze archeologiche, architettoniche e artistiche di una presenza quasi trimillenaria sono state impietosamente distrutte, destinate ad altri usi (moschee, musei, prigioni eccetera) oppure salvaguardate, ma tacendone l’origine armena - scrive Ferrari - Secondo dati Unesco del 1974, dei 914 monumenti storici armeni sopravvissuti al genocidio, 464 sono stati completamente distrutti, 253 sono in rovina e 197 richiedono urgenti opere di restauro. Oggi, fatta eccezione per la città di Istanbul, in Turchia esistono 6 chiese armene ancora in funzione, nessun monastero e nessuna scuola”.

L’autore, docente di lingua e letteratura armena a Ca’ Foscari, focalizza in cinque capitoli il suo percorso ricostruttivo, dedicati a cinque luoghi-simbolo di una storia antichissima.

Il primo capitolo è dedicato al monte Ararat (oggi in Turchia) da sempre sacro agli armeni, sul quale, - è scritto nella Bibbia - si arenò l’Arca di Noè al termine del diluvio universale. Il secondo capitolo racconta dell’epica battaglia perduta di Avarayr. Il 2 giugno del 451 d.C. gli armeni furono sconfitti dai Persiani, che volevano convertirli allo zoroastrismo, tuttavia trent’anni più tardi ottennero la libertà di culto: un episodio decisivo, nella costruzione e conservazione di un’autocoscienza nazionale.

Il terzo capitolo è incentrato sulla città di Van, e sul suo grande, bellissimo lago con l’incantevole isola di Akhtamar. Qui, nell’aprile/maggio del 1915, ebbe luogo un disperato tentativo di resistenza armena allo sterminio (episodio meno noto, rispetto al più celebre di Moussa Dagh) fino all’arrivo delle truppe russe. Gli ultimi due capitoli sono dedicati alle antiche capitali di Ani, che segnò il ritorno all’indipendenza degli armeni nel corso del medioevo, e Kars, quest’ultima descritta nel celebre romanzo “Neve”, di Orhan Pamuk.

E’ stato per precisa scelta e responsabilità delle potenze europee, soprattutto di britannici e tedeschi, osserva Ferrari, se la Russia non ha potuto liberare l’Armenia dal dominio turco, nel corso dell’800. L’impero ottomano uscirà poi sconfitto nel primo conflitto mondiale, ma per gli armeni sarà troppo tardi. I paesi vincitori li lasceranno alla merce degli sterminatori, la Russia sovietica non faticherà ad accordarsi con Ataturk per la definitiva spartizione. La sistematica eliminazione di ogni traccia dell’esistenza degli armeni è stata “scientifica e accuratissima”, osserva amaramente Antonia Arslan nella prefazione; di conseguenza, “la terra che fu loro è perduta per sempre”.

giovedì 22 aprile 2021

"Il guardiano", di Peter Terrin (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di Il guardiano, di Peter Terrin (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 21 aprile.

Harry e Michel sono due guardie armate. Vivono alla luce del neon, nel seminterrato di un grattacielo di lusso, sorvegliando ossessivamente il cancello di ingresso e assolvendo il loro compito quotidiano con gesti ripetitivi e monotoni. Possono spiare il mondo esterno solo attraverso una sottile fessura nel muro, che odora di metallo e cemento. Annusano l’aria, come i cani da guardia.

All’improvviso, gli abitanti del condominio fuggono dal palazzo - tutti tranne uno. Cosa sia successo, non è dato di sapere: una violenta sommossa, un virus, un’eco-catastrofe? I due hanno la sensazione che l’Organizzazione li abbia abbandonati al loro destino. O forse li sta mettendo alla prova?

Peter Terrin, autore olandese di varie opere teatrali, propone un romanzo apertamente ispirato al teatro dell’assurdo. Per l’atmosfera claustrofobica e l’attesa snervante, “Il guardiano” ricorda in particolare “Il calapranzi”, di Harold Pinter.

“Quando io e Harry ci parliamo è come se recitassimo in una piéce in teatro (…) Due sottomarini nelle profondità oceaniche che individuano la reciproca presenza usando l’ecoscandaglio”.

Ogni giorno, Michel conta e riconta nevroticamente le scatole delle pallottole in dotazione, e le pallottole in ciascuna scatola. Poi entrambi scaricano le pistole e ricontano le quindici cartucce a testa a disposizione. Poiché nessuno ha tirato un colpo, il totale della scorta di magazzino è sempre lo stesso, “più trenta”.

Dei due, Harry è il capo, esaltato e fanatico. Viceversa Michel, l’io narrante, è passivo e remissivo, succube del brusco collega. Harry è autoritario e impositivo, Michel ordinato e metodico, fissato su dettagli insignificanti e turbato dagli incubi. “Ho bisogno di tenere il mio ambiente ordinato, sgombro, in modo che i miei pensieri riescano a trovare un luogo sereno in cui distendersi e riposarsi”.

Ogni settimana, i due colleghi accolgono il furgone dei rifornimenti con le pistole spianate, appostati ai lati del cancello, in un crescendo assurdo e paranoico destinato a un epilogo inevitabilmente fuori controllo.

“Succederà prima o poi che io e Harry saremo assediati da mute di disperati, mutilati in modo ripugnante, che porteranno il loro attacco lentamente e con pazienza disumana, grattando il cemento per mesi con cacciaviti e coltellini finché la scanalatura cederà e, unendo le loro forze, riusciranno a spostare quanto basta il cancello? Riusciremo a mantenerci sani di mente fino a quel momento, e a sparare solo quando avremo il nemico davanti?”.

giovedì 1 aprile 2021

"Omaggio alla Catalogna", di George Orwell (Guanda)

Qui di seguito, la mia recensione di "Omaggio alla Catalogna", di George Orwell, riedito quest'anno da Guanda. L'articolo è pubblicato sul quotidiano Il Foglio di oggi. 

Com’era ingenuo George Orwell, nel 1936…! Era un socialista rivoluzionario, un idealista, e partì volontario nella guerra civile spagnola, arruolandosi nelle Brigate internazionali. Voglio uccidere almeno un fascista, scrive: se tutti i socialisti faranno altrettanto, il fascismo sarà debellato.

Aveva appena pubblicato “Fiorirà l’aspidistra”, tipico romanzo esistenzialista, ed era deciso a liberarsi dal senso di colpa, per avere servito per cinque anni nella polizia di Sua Maestà in Birmania. Dopo aver toccato con mano gli orrori del colonialismo britannico, ed esserne stato complice, voleva riscattarsi e mettersi a posto con la coscienza.

Lo scrittore sbarca in una Barcellona in mano ai rivoluzionari e agli anarchici. Nessuno è vestito da “borghese”, non si vedono giacche e cravatte né signore eleganti, ma solo tute da operai. Gruppi di armati si aggirano per le strade, vestiti da straccioni. Molti di loro sono giovanissimi. Tutti danno del tu a tutti, compresi i camerieri e i commessi dei pochi negozi aperti. Al posto di señor, si dice compagno. Comincia a scarseggiare il pane. “Respiravo l’aria dell’uguaglianza, ed ero abbastanza ingenuo da immaginare che fosse così in tutta la Spagna”.

Orwell si arruola con i primi che incontra: sono quelli del Poum (“Se non vi interessano le controversie politiche e la miriade di partiti e partitini con i nomi che si confondono fra loro, come quelli dei generali in una guerra cinese, saltate pure questa appendice”). Di lì a poco, verranno accusati di “trotzkismo” e faranno tutti una brutta fine. Dopo un addestramento da burletta, parte per il fronte in Aragona. E’ uno dei pochi a conoscere l’uso delle armi.

Omaggio alla Catalogna è la cronaca, puntuale e disperata, di quei tragici sei mesi, e narra di un duplice conflitto: quello contro i franchisti nelle trincee, e quello fra rivoluzionari e comunisti nelle retrovie. La guerra di trincea si presenta con il consueto repertorio di fango, freddo, fame e tanti, tanti pidocchi. Si dorme in una buca gelida e nera, mancano persino le candele. Il colpo di un cecchino ferisce Orwell alla gola, ma sopravvive e le corde vocali sono illese.

Dopo l’ospedale, torna a Barcellona per la convalescenza e subito si accorge che il clima è cambiato. Prende parte ai drammatici avvenimenti di maggio e assiste sgomento all’epurazione del Poum: scontri armati, arresti arbitrari, sparizioni, fucilazioni. In seguito, il ministro della difesa dichiarerà che la polizia “era diventata quasi indipendente, ma in effetti sotto il controllo di elementi comunisti stranieri”.

Orwell riesce a riparare in Francia. Sognava una società “senza classi”, prefigurata dall’egualitarismo spontaneo delle milizie rivoluzionarie, e la presa del potere della classe operaia. Ma ammette anche, candidamente, la propria ignoranza politica. Dieci anni dopo, in “1984”, descriverà il mondo da incubo dell’oppressione totalitaria.