giovedì 30 aprile 2020

"La scrittura o la vita", di Jorge Semprùn (Guanda)


“Non possono capire, capire veramente, questi tre ufficiali. Dovrei raccontar loro il fumo: talvolta denso e d’un nero di fuliggine cangiante nel cielo. Oppure leggero e grigio, quasi vaporoso, che avanza, sospinto dal vento, come un presagio o un saluto sui vivi assembrati”. Pubblicato per la prima volta nel ’94, “La scrittura o la vita” racconta lo straziante dramma interiore di un reduce da Buchenwald, quando capisce che, se dimenticare è impossibile, scrivere gli sarebbe fatale.
“Niente, di primo acchito, svelava dove avevo passato gli ultimi anni. Io stesso tacqui a lungo su questo argomento. Il mio non era un silenzio affettato, né colpevole, né tanto meno pusillanime. Ma un silenzio di sopravvivenza”. (...)
Dopo quindici anni di silenzio, Semprùn trova la forza di scrivere, di raccontare ciò che non ha mai cessato di tormentarlo. “Il grande viaggio” è del ‘63, cui seguono altre opere di carattere autobiografico. Dall’88 al ’91 Semprùn è ministro della cultura nel governo di Felipe Gonzales, mentre cade il muro di Berlino. Nel ‘92 torna a Buchenwald, due anni dopo dà alle stampe questo suo doloroso capolavoro, in cui ripercorre le tappe di una vita straordinaria e riflette sui suicidi di Primo Levi e Paul Celan. (...)

A questo link, la recensione completa di "La scrittura o la vita", di Jorge Semprùn (Guanda) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 29 aprile.

martedì 21 aprile 2020

"Né con Agamben né con Litta Modignani"

"Né con Agamben né con Litta Modignani" scrive sul suo blog l'amico Carlo Gambescia, sociologo e saggista, riprendendo la mia polemica di ieri contro il noto e stimato filosofo. Troppo onore, veramente.Tengo però a precisare che io non penso affatto che "tornerà tutto come prima". Al contrario, sono molto preoccupato per la grande crisi che investirà tutta l'economia mondiale a causa della pandemia, e per le sue inevitabili e devastanti conseguenze sociali.
A questo link, l'intervento di Gambescia:
https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2020/04/le-conseguenze-dell-emergenza.html?fbclid=IwAR0K4R4XCYAjkN9JE2gSmDMEFABR3gtKS-m_M1MbwFVRaP7PUFxvstEUtGk

lunedì 20 aprile 2020

Risposta ad Agamben, cattivo maestro

Nei giorni scorsi, il noto filosofo e autorevole docente Giorgio Agamben ha pubblicato l’articolo che segue. Ieri, avendolo ricevuto da un amico, l’ho postato sulla mia bacheca di facebook, liquidandolo sbrigativamente con il termine di “cazzate”. Alcuni mi hanno dato ragione, altri invece hanno criticato il mio atteggiamento, tacciandomi di intolleranza. Pertanto mi vedo costretto a rispondere in dettaglio alle affermazioni di Agamben, subito sotto.


UNA DOMANDA, di Giorgio Agamben

Vorrei condividere con chi ne ha voglia una domanda su cui ormai da più di un mese non cesso di riflettere. Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia? Le parole che ho usato per formulare questa domanda sono state una per una attentamente valutate. La misura dell’abdicazione ai propri principi etici e politici è, infatti, molto semplice: si tratta di chiedersi qual è il limite oltre il quale non si è disposti a rinunciarvi. Credo che il lettore che si darà la pena di considerare i punti che seguono non potrà non convenire che – senza accorgersene o fingendo di non accorgersene – la soglia che separa l’umanità dalla barbarie è stata oltrepassata.
1) Il primo punto, forse il più grave, concerne i corpi delle persone morte. Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?
2) Abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di limitare in misura che non era mai avvenuta prima nella storia del paese, nemmeno durante le due guerre mondiali (il coprifuoco durante la guerra era limitato a certe ore) la nostra libertà di movimento. Abbiamo conseguentemente accettato, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio.
3) Questo è potuto avvenire – e qui si tocca la radice del fenomeno – perché abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. Ivan Illich ha mostrato, e David Cayley l’ha qui ricordato di recente, le responsabilità della medicina moderna in questa scissione, che viene data per scontata e che è invece la più grande delle astrazioni. So bene che questa astrazione è stata realizzata dalla scienza moderna attraverso i dispositivi di rianimazione, che possono mantenere un corpo in uno stato di pura vita vegetativa.
Ma se questa condizione si estende al di là dei confini spaziali e temporali che le sono propri, come si sta cercando oggi di fare, e diventa una sorta di principio di comportamento sociale, si cade in contraddizioni da cui non vi è via di uscita.
So che qualcuno si affretterà a rispondere che si tratta di una condizione limitata del tempo, passata la quale tutto ritornerà come prima. È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di ricordarci che quando l’emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il “distanziamento sociale”, come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato.
Non posso, a questo punto, poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi, non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto un Papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede. Un’altra categoria che è venuta meno ai propri compiti è quella dei giuristi. Siamo da tempo abituati all’uso sconsiderato dei decreti di urgenza attraverso i quali di fatto il potere esecutivo si sostituisce a quello legislativo, abolendo quel principio della separazione dei poteri che definisce la democrazia. Ma in questo caso ogni limite è stato superato, e si ha l’impressione che le parole del primo ministro e del capo della protezione civile abbiano, come si diceva per quelle del Führer, immediatamente valore di legge. E non si vede come, esaurito il limite di validità temporale dei decreti di urgenza, le limitazioni della libertà potranno essere, come si annuncia, mantenute. Con quali dispositivi giuridici? Con uno stato di eccezione permanente? È compito dei giuristi verificare che le regole della costituzione siano rispettate, ma i giuristi tacciono. Quare silete iuristae in munere vestro?
So che ci sarà immancabilmente qualcuno che risponderà che il pur grave sacrificio è stato fatto in nome di principi morali. A costoro vorrei ricordare che Eichmann, apparentemente in buon fede, non si stancava di ripetere che aveva fatto quello che aveva fatto secondo coscienza, per obbedire a quelli che riteneva essere i precetti della morale kantiana. Una norma, che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà.

Giorgio Agamben - 13 aprile 2020

LA MIA RISPOSTA

L’Italia attraversa un momento drammatico, tragico per molte famiglie. E’ un paese prostrato, che si interroga con preoccupazione sul futuro. Ma non è affatto vero che sia “crollata eticamente e politicamente”, come scrive Agamben. L’Italia si fa coraggio, fa appello alla sua forza morale, e resiste. L’Italia non ha affatto “abdicato al propri principi”, bensì è impegnata nella difesa del bene primario dei suoi concittadini: il diritto alla salute e alla vita.
“Qual è il limite?” chiede con enfasi Agamben. La risposta è semplice: la fine della pandemia, che non è un problema politico né giuridico, ma sanitario, come capiscono perfettamente tutte le persone normalmente intelligenti. “Abbiamo superato la soglia della barbarie” è una frase retorica, largamente esagerata, altisonante e vuota, mirata ad esaltare le menti deboli.
Procediamo con ordine.
1)      “In nome di un rischio che non era possibile precisare”, abbiamo dovuto rinunciare ai funerali delle persone care, sostiene Agamben. No, il rischio è stato precisato benissimo, ed è chiaro a tutti tranne che al filosofo: è il rischio di morire, cioè di fare la stessa fine delle persone per le quali non è stato neppure possibile celebrare i funerali. E’ il rischio di essere contagiati da un virus letale, come tutti sanno. “Non era mai avvenuto prima nella storia, da Antigone ad oggi…” è un’altra frase retorica, grossolanamente falsa. E’ accaduto sempre, in quasi tutte le guerre e le epidemie del passato. Ancora di recente, è accaduto ad almeno sei milioni di persone (ma anche a molti altri) nel corso della Seconda guerra mondiale. Citare Antigone è chic, ma l’affermazione resta infondata e ridicola, tale da squalificare completamente il suo autore, privandolo di qualsiasi autorevolezza e credibilità.
2)      “In nome di un rischio che non era possibile precisare” (ancora?) è stata limitata la libertà di circolazione delle persone. Anche in questo caso, la risposta è elementare: c’è un virus mortale in circolazione, dunque se vogliamo evitare il rischio di un contagio mortale, per noi e per gli altri, dobbiamo circolare quanto meno è possibile. L’hanno capito tutti, potrebbe arrivarci anche un insigne filosofo e cattedratico. “Soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare” (e tre!) abbiamo accettato di sospendere i rapporti di amicizia e amore. Veramente, le cose non stanno proprio così: l’amicizia e l’amore continuano, ma nelle sole forme possibili, cioè a distanza. Io coltivo in questi giorni intensi rapporti di amicizia fraterna con molte persone, vedo tutti i giorni le mie figlie in videochiamata (esattamente come quando studiavano in università all’estero) e parlo più volte al giorno con la donna che amo e che vive in un’altra città. E allora? Quando sarà finito il rischio di contagio, tornerò ad abbracciare le mie figlie, a cenare con gli amici e a fare l’amore con la donna che amo, alla faccia degli intellettuali rinomati e dei loro adoranti seguaci ideologici. Abbiamo accettato tutto questo “soltanto perché il nostro prossimo era una possibile fonte di contagio”, scrive Agamben. Come sarebbe, “soltanto”? Appunto per questo, semmai: per evitare un rischio potenzialmente mortale. Perché siamo esseri umani, intelligenti e razionali.
3)      Alla radice del fenomeno, sostiene Agamben, vi sarebbe la scissione fra corpo e spirito, un’astrazione di cui sarebbero responsabili la scienza e la medicina moderna. (Ma cos’hanno, questi intellettuali italiani, contro la modernità? Nei giorni scorsi è morto Luciano Pellicani, uno dei pochi che, contro il pregiudizio antiscientifico nella nostra cultura, ha sempre tenuto il punto. Grazie, Pellicani! Ti sia lieve la terra). Questa separazione si sarebbe ora estesa fino a diventare “un principio di comportamento sociale”. Ma quando mai? Senza entrare troppo nel merito della questione, e pur riconoscendo che da sempre la scienza pone l’uomo davanti a interrogativi morali, resta il fatto oggettivo che le regole che limitano la nostra libertà in questi giorni, non sono “principi” politici né morali, né giuridici: sono misure di carattere medico e sanitario. Voler conferire loro un significato simbolico, o metaforico, o metafisico, questo sì, costituisce un’astrazione, evidentissima per chiunque legga le parole di Agamben con spirito critico, senza sudditanza psicologica e timori reverenziali.
Non esiste nessuna “contraddizione”, fra il volersi bene e il non volersi contagiare. E’ vero esattamente il contrario: volersi bene, e ammalarsi fino a morirne, questa sì è una “contraddizione senza via di uscita” di cui Agamben resta prigioniero, come vedremo meglio fra poco.

La Chiesa sarebbe diventata “ancella della scienza” – scienza, ancora questa cosa brutta e cattiva - che sarebbe ormai la “nuova religione del nostro tempo”. Perciò Francesco (il Papa) avrebbe dimenticato che Francesco (il santo) “abbracciava i lebbrosi”. Di nuovo, non entro nel merito di una disquisizione religiosa o teologica: non mi interessa. Mi limito sommessamente a osservare che, dai tempi del poverello d’Assisi a oggi, sono cambiate molte cose. O no? La scienza, la biologia, ci hanno fatto fare qualche progresso, nel campo delle conoscenze medico-sanitarie, o no? “I martiri ci insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita, piuttosto che le fede”. Ah, ecco, finalmente un’intuizione filosofica! O piuttosto “anti” filosofica, mi verrebbe da dire. Perché volersi bene e stare per un po’ lontani, per prudenza, non è contraddittorio; sacrificare stoltamente la vita, invece, quella sì è una contraddizione, anche se Agamben non se ne avvede.
I medici, gli infermieri, gli addetti negli ospedali rischiano molto (137 medici morti, a oggi) ma cercano di proteggersi, saggiamente. Lasciare loro, protetti, accanto ai malati, invece dei parenti affettuosi (che rischierebbero di ammalarsi a loro volta) è una grande dimostrazione di saggezza e prudenza – anche a costo di suscitare le ire del Grande Filosofo.
Mantenersi a prudente distanza dal contagio di un virus, non significa affatto, per un laico, abdicare alla propria libertà; né tantomeno, per un credente, rinunciare alla propria fede. Chi lo pensa, lui sì, è in evidente malafede.
Agamben chiama in causa anche i giuristi. Per la verità, gli uomini di diritto sono divisi in questa vicenda (come gli scienziati, del resto). Alcuni sostengono la necessità e legittimità delle misure adottate, altri sono fortemente contrari. Ma fra loro ve ne è uno, che può essere considerato un punto di riferimento affidabile: fortunatamente, è il capo dello Stato. Sergio Mattarella rappresenta bene – assai più del neofita che è a capo del governo– la forza morale dell’Italia di oggi: egli è un uomo forte e mite, costituzionalista di primissimo ordine. Io ho fiducia in lui, nel suo ruolo di garante della vita istituzionale, meritevole della simpatia e stima di moltissimi italiani ragionevoli.
Nel contesto attuale, l’accostamento fra la decretazione di urgenza - di cui peraltro in Italia si è sempre abusato – e il nazismo, non merita commento alcuno. I riferimenti a Hitler e Eichmann, più che colpire i destinatari, squalificano il mittente. Sono chiacchiere da bar tabacchi, parole non degne di un rinomato filosofo e docente universitario.
Per concludere: no, i sacrifici che stiamo affrontando non sono compiuti  “in nome di principi morali”, ma di provvedimenti sanitari, per fronteggiare e debellare una grave epidemia. Rinunciamo, ancorché parzialmente, alla nostra libertà, per un elementare criterio di prudenza e per scongiurare un danno più grave. La logica della “riduzione del danno” è una delle massime manifestazioni dell’intelligenza umana. Passato questo brutto periodo, torneremo a vivere liberi, alla ricerca della felicità.
Anche la frase finale della lettera di Agamben è da dimenticare, come tutto il resto: una sentenza filosoficamente risibile. Se si perde la libertà, ma si salva la vita, si può sperare di ritornare liberi un giorno; mentre se si perde la vita, nessuna libertà potrà mai rivivere. E’ una considerazione scontata, evidente a chiunque, eppure necessaria, per dimostrare l’inconsistenza e fallacia del pensiero di un cattivo maestro.

domenica 19 aprile 2020

"Di guerra e di noi", di Marcello Dòmini (Marsilio)

Medico chirurgo e docente universitario, Marcello Dòmini esordisce in letteratura con un romanzo-fiume, ambientato nell’Italia dilaniata dalle due guerre mondiali e dalla dittatura.
Ricciotti è un ragazzino di appena nove anni, quando apprende della morte del padre, caduto sul Carso. I destini suo e del fratellino, Candido, devono necessariamente separarsi: il piccolo resta in campagna nel mulino di famiglia, con la madre; Ricciotti invece è costretto a misurarsi con la durezza del collegio, deve crescere in fretta e imparare a difendersi.
La storia dei due fratelli, ambientata a Bologna e nella campagna circostante, è il perfetto affresco di un’Italia per lo più agricola, trascinata nel vortice della storia dall’ascesa al potere del fascismo. (...)
Arriva la guerra, il tempo dell’odio e della vergogna, con il suo inevitabile portato di assurdità, di violenza, di disposizioni grottesche e irrazionali. (...)
“Di guerra e di noi” è un libro toccante e amaro, che distribuisce con criterio equanime torti e ragioni, e che non nega a chi ha sbagliato l’opportunità di un riscatto. Arriva infine la Liberazione, e con essa la vendetta, quella particolare forma di giustizia che non sa distinguere e che non lascia scampo. (...)

A questo link, la recensione completa di "Di guerra e di noi", di Marcello Dòmini (Marsilio) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 15 aprile.
https://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2020/04/15/news/di-guerra-e-di-noi-313097/