sabato 6 aprile 2024

La grande fortuna, di Olivia Manning (Fazi )

Qui di seguito, la mia recensione di La grande fortuna, di Olivia Manning (Fazi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 3 aprile.

Scrittrice di successo del secondo Novecento inglese, ma poco nota in Italia, Olivia Manning è celebre soprattutto per due trilogie: la “trilogia balcanica” e la “trilogia del Levante”. La grande fortuna è il primo di questa serie di sei romanzi, di impianto schiettamente autobiografico, uscito nel 1960.

Harriet e Guy, sposi novelli, si trasferiscono in Romania nel corso di un angoscioso 1939. Lui conosce già il paese, in cui insegna inglese; lei invece, con il passare dei giorni, scopre al contempo le bizzarrie danubiane e quelle del marito. Guy è capace di grandi slanci idealistici, di pericolosi eccessi di generosità, ma anche di un’ostinazione invincibile. La sposina fatica a integrarsi e a tenere in equilibrio il rapporto di coppia, circondata com’è da uno stuolo di personaggi eccentrici e pittoreschi, nobili pretenziosi, fannulloni squattrinati, giornalisti pigri e chiacchieroni.

“Certo lei ha sentito la storia del rumeno che passeggia con l’amico tedesco, e gli indica il prezzo di tutte le donne che incontrano. Santi numi, dice il tedesco, ma non ci sono donne oneste da queste parti? Certo, gli risponde il rumeno, ma quelle costano un occhio della testa”.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Romania è un paese socialmente fragile, politicamente bloccato, attraversato dalla violenza nazionalista e pervaso da un radicato odio antiebraico. Bucarest è popolata da uno stuolo di contadini affamati e di cenciosi mendicanti. Solo lo spiccato British humour dell’autrice riesce a combinare tragedia e facezia, dando vita a un romanzo perennemente in bilico fra l’incalzare della storia e lo snobismo dei vari personaggi.

“Per Bucarest, la caduta della Francia equivaleva alla caduta della civiltà. Tutti credevano che la Francia fosse la culla della cultura, dell’arte e della moda, delle opinioni liberali e del concetto stesso di libertà (…) La vittoria dei nazisti sarebbe stata la vittoria delle tenebre”.

In questo contesto, Guy decide di allestire uno spettacolo shakespeariano – splendida metafora dell’Europa che si culla nelle proprie illusioni, a fronte della tragedia ormai incombente. Tuttavia egli esclude bruscamente la moglie dalla scena, mortificandola in una mansione marginale.

“Harriet aveva giudicato quella fuga dalla realtà ancor meno giustificabile perché era lui che, nei giorni trascorsi assieme prima della guerra, aveva sostenuto la necessità di una guerra antifascista, una guerra che, Guy lo sapeva, sarebbe calata come una mannaia tra lui e i suoi amici in Inghilterra. Spesso citava i versi di una poesia: ‘E così bevo alla tua salute, prima che il calcio del fucile bussi alla porta’. Beh, il fucile aveva bussato, e Guy dov’era?”.

giovedì 7 marzo 2024

L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani

Qui di seguito, la mia recensione del libro "L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani", di Heinrich e Richard von Coudenhove-Kalergi (Mimesis) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.

Chi furono in realtà i Kalergi, fautori di quel famigerato “piano”, che esalta gli amanti delle teorie cospirative? Ci aiuta a scoprirlo Vincenzo Pinto, storico e germanista, curatore di un saggio dal notevole interesse anche filosofico.

Il volume è diviso in due parti. Nelle prime 80 pagine, Richard von Coudenhove-Kalergi (1894-1972) spiega “L’odio attuale per gli ebrei”, proprio del suo tempo: siamo nel 1935 e Hitler è al potere da un paio d’anni. Nella seconda parte, invece, lo stesso Richard ripubblica il saggio di suo padre Heinrich (1859-1906) che nel 1901 aveva scritto “L’essenza dell’antisemitismo”, un ampio saggio di carattere storico e teologico, dall’antichità all’età moderna, fino a Lutero.

I Kalergi, padre e figlio, sono due aristocratici mitteleuropei di stampo illuminato e tollerante. Colti e raffinati, amanti di Schopenhauer e Nietzsche, intendono contrastare il dilagante nazionalismo tedesco, di cui l’antisemitismo è l’aspetto più irrazionale.

Il disprezzo e l’odio verso una minoranza religiosa e nazionale viene esaminato da Richard nei suoi aspetti psicologici più reconditi. “Per amore della sua fede, l’ebraismo ha affrontato una guerra mondiale di duemila anni contro tutta l’Europa”. L’antisemitismo è una reazione sia al capitalismo che al comunismo, perché gli ebrei sono accusati al contempo di essere bolscevichi e banchieri. “Il sionismo fece di tutto per chiarire la questione ebraica, creando un nazionalismo ebraico. Diminuì il disprezzo verso gli ebrei, ma ne aumentò l’odio. Da casta disprezzata, il sionismo sta trasformando l’ebraismo in una nazione odiata”.

L’antisemitismo razziale, spiega ancora Kalergi jr., è basato su un fondamento pseudo-scientifico: sembra una rivelazione, ma nasce da un pregiudizio infantile che si trasforma in psicosi di massa. Non solo Gesù Cristo era ebreo, ma anche tutti i suoi discepoli, compresi i quattro autori del Nuovo Testamento. Quanto ai popoli dell’Europa, “sono così meticci che non si può parlare di una razza pura”.

Agli albori del nazismo, l’autore osserva preoccupato: “Il colpo inferto agli ebrei tedeschi è solo un monito, perché nessuno sa se sia un apice o un preludio”. Quanto al sionismo, nonostante gli ammirevoli risultati ottenuti, “il futuro di questa creazione resta incerto”.

“Uno dei prodotti più riusciti della filosofia politica dei Kalergi – scrive Pinto nelle conclusioni – consisterebbe nel piano di sostituzione etnica della ‘razza bianca europea’, attribuito all’europeista Richard. Tanto i Coudenhove-Kalergi quanto George Soros appaiono come i diabolici ‘angeli caduti’ che fomentano la distruzione dell’umanità, oppure come i visionari sostenitori di un mondo aperto, integrato e libero”.

venerdì 19 gennaio 2024

Il capanno del pastore, di Tim Winton (Fazi)

 Qui di seguito, la mia recensione di Il capanno del pastore, di Tim Winton (Fazi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 17 gennaio.

Tim Winton, uno dei più importanti e affermati esponenti della letteratura australiana, offre un romanzo che pare ispirarsi alla grande narrativa americana del Novecento. Winton ricorda London, Steinbeck, Faulkner, e più di tutti Salinger. Jaxie, il ragazzo protagonista, presenta infatti molte caratteristiche comuni al giovane Holden: parla in prima persona, è scurrile e sgrammaticato, si rivolge ai lettori con arroganza e sarcasmo. Jaxie racconta con ammirazione di Lee, la fidanzatina che sogna di raggiungere, così come Holden parlava con orgoglio della sua mitica sorellina Phoebe. Ma l’accostamento finisce qui. Se quello di Salinger era un romanzo leggiadro, questo è invece un violento e durissimo dramma, ambientato nella desolata e desertica campagna australiana.

Il capanno del pastore è diviso in tre parti. Nella prima, il giovane protagonista si dà alla fuga, dopo aver trovato il padre, un macellaio violento e alcolizzato, morto tragicamente nel garage di casa. Con la forza della disperazione, a piedi, Jaxie ingaggia una lunga ed estenuante lotta per la sopravvivenza, dormendo sotto le stelle. Nella seconda parte, quasi stremato da fame e sete, il ragazzo incontra Fintan, l’altro protagonista del romanzo. Costui è un vecchio solitario e derelitto, mezzo sordo, paterno e indulgente verso le intemperanze del giovane. Fintan sembra un vecchio innocuo, ma nasconde con vergogna segreti inconfessabili. Fra i due si stabilisce un rapporto positivo, tratteggiato con sensibilità, realismo e poesia. Nella terza parte, infine, si svolge il dramma imprevisto e violento - che non raccontiamo.

Fintan vive ai bordi di un arido e accecante lago di sale, forte metafora della condizione umana e della solitudine dell’esistenza. “Da solo laggiù, il riva al lago, un lago senz’acqua, cercava di arrangiarsi come poteva (…) Senza più futuro, senza più niente in cui sperare, senza più uno scoglio a cui aggrapparsi. Non aveva più famiglia né amici. In questo eravamo uguali, io e lui”.

Il capanno del pastore è un romanzo di qualità, che può iscritto a pieno titolo anche nella letteratura di formazione.

“Per la prima volta nella vita so quello che voglio e ho quello che mi serve per prendermelo. Se non avete mai provato questa sensazione, mi dispiace per voi. Ma non è sempre stato così. Ho dovuto attraversare il fuoco per arrivare fino a qui. Ho visto delle cose e ho fatto delle cose e mi hanno fatto delle carognate che non ci credereste nemmeno. Quindi siate felici per me. E non mettetevi sulla mia strada, porca troia”.

 

giovedì 11 gennaio 2024

La scomunica di Hitler, di Oscar Levy (Edizioni Casagrande)

Solo in questi giorni mi sono accorto che il 21 ottobre scorso il quotidiano Il Foglio ha pubblicato questa mia recensione di "La scomunica di Hitler", di Oscar Levy (Edizioni Casagrande). 

“Come potete voi, Herr Hitler, un semplice patriota, anche solo osare entrare nel tempio di Nietzsche e venerarlo al suo sacro altare? (…) Dove sono i vostri antenati, la vostra genealogia, l’attestato della vostra razza e della vostra religione? Voi aborrite il cristianesimo e l’ebraismo, ma credete davvero che ogni pivello abbia il diritto di giudicare una religione che governa il mondo da duemila anni? Credete veramente che ciò che spetta a Nietzsche, spetti anche a voi?”.

Folgorato dalla lettura dei testi di Friedrich Nietzsche, Oscar Levy, uno sconosciuto ebreo tedesco, fra il 1909 e il 1913 cura la pubblicazione in Inghilterra dell’intera opera del grande filosofo tedesco, in 18 volumi. Levy è un personaggio originale, bizzarro: giudica il nazismo un’eresia ebraica, e il comunismo un’eresia cristiana.

La sua lettera aperta a Hitler, del 1938, ora tradotta per la prima volta in italiano da Vincenzo Pinto, rappresenta un vero e proprio atto di rivolta contro tutte le letture plebee della filosofia nicciana.

“Nietzsche non era nazionalista, mentre voi lo siete. Nietzsche non era un socialista, mentre voi lo siete. Nietzsche non era antisemita. (…) Chiamava gli antisemiti i “perdenti’. Un’altra volta scrisse: ‘Il cielo abbia pietà dell’intelligenza europea, se fosse privata di quella ebraica’”.

Levy incalza implacabilmente Hitler sul terreno filosofico: “Col tempo gli europei hanno capito che il vostro pangermanesimo era un’ideologia basata sulla filosofia di Fichte e di Hegel”, e quanto al resto, “era una propaganda assurda, ma come voi sapete e dite bene nel Mein Kampf, la propaganda deve essere limitata e insensata per avere un successo sorprendente fra le masse”. E aggiunge: “Ora, Herr Hitler, voi potete essere qualsiasi cosa: salvatore, assassino, tribuno della plebe, sonnambulo o tutte e quattro queste cose insieme. Ma io vi dico che non vi meritate nemmeno di lustrare le scarpe a Nietzsche”.

A sostegno delle sue tesi, l’autore cita Nietzsche che, in Zarathustra, scrive: “Voglio avere steccati attorno ai miei pensieri e anche attorno alle mie parole, perché i maiali e gli esaltati non irrompano nel mio giardino”, e nel 1884, in una lettera alla sorella: “Mi spaventa il pensiero che persone non qualificate e del tutto inadeguate siano chiamate a esercitare la mia autorità”.

Amarissimo e profetico è il giudizio di Levy sulle responsabilità degli intellettuali: “La verità in politica non sempre è necessaria (…) ma è essenziale nel regno della scienza e della filosofia, perché il tradimento degli intellettuali porta al fallimento dei politici, e il fallimento dei politici allo spargimento insensato di sangue fra i popoli”.

“Ma noi – i pochi veri nicciani in questo falso mondo - non possiamo e non dovremo avere dubbi. Non abbiamo nulla in comune con voi (…) Vi chiediamo quindi di lasciare il nostro giardino”. La lettera aperta di Oscar Levy resterà inedita.

lunedì 8 gennaio 2024

"Un genocidio culturale dei nostri giorni", AA.VV., (Guerini)

Qui di seguito, la mia recensione di "Un genocidio culturale dei nostri giorni", AA.VV., (Guerini) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 6 gennaio. 

“Negli ultimi trent’anni l’Azerbaigian ha causato la distruzione irreversibile del patrimonio religioso e culturale, in particolare nella Repubblica autonoma del Nakhichevan, dove sono state distrutte 89 chiese armene, 20.000 tombe e oltre 5.000 lapidi”: così il Parlamento europeo, che con la Risoluzione del 10 marzo 2022 esprime la sua ferma condanna per la sciagurata politica distruttiva del governo di Baku.

Allo scopo di documentare dettagliatamente lo scempio avvenuto, e con la recondita speranza di scongiurarne uno nuovo e peggiore, Antonia Arslan e Aldo Ferrari curano la pubblicazione di questo volume, che raccoglie testi di un qualificato gruppo di letterati, archeologi e studiosi. L’opera è volta a dimostrare che “la piccola e quasi sconosciuta regione del Nakhichevan – attualmente Repubblica autonoma all’interno dell’Azerbaigian – sia stata per millenni parte integrante del territorio e della cultura dell’Armenia”, prima del genocidio degli inizi del Novecento.

Emblematica, in questo senso, la distruzione dell’antica necropoli medievale di Giulfa, storico centro armeno sul fiume Arasse (al confine con l’Iran) che ancora all’inizio del ‘900 contava ben 18 chiese. Questa vasta necropoli era caratterizzata dalla presenza di migliaia di khachkar, le grandi “croci di pietra” scolpite e decorate, emblema storico della presenza dell’Armenia cristiana. Dopo gli scempi di epoca sovietica, nel 1998 l’Azerbaigian decide di procedere a una sistematica eliminazione delle grandi lapidi, che vengono abbattute, fatte a pezzi, polverizzate, portate via o buttate direttamente nel fiume Arasse da reparti regolari di soldati dell’esercito azero. “Queste fasi - scrive Martina Corgnati - sono tutte documentate e fotografate da rappresentanti della Chiesa armena, giornalisti e storici dell’arte iraniani e internazionali, spettatori impotenti del tetro spettacolo che si svolgeva sull’altra riva del fiume”.

L’esigenza di non dimenticare questo insieme di devastazioni è tanto più forte e pressante, in quanto collegata al rischio concreto che, dopo la vittoria lampo del 2020 e la recente pulizia etnica del settembre scorso, l’Azerbaigian intenda ripetere nel Nagorno Karabakh – che gli armeni hanno sempre chiamato Artsakh – la stessa politica di spopolamento e genocidio culturale già condotta nel Nakhichevan.

Se tutto ciò riguarda passato e presente, ancora più preoccupanti sono le prospettive future. Nei bellicosi proclami di Baku, sempre più spesso l’intero territorio della Repubblica d’Armenia viene denominato “Azerbaigian occidentale”, cioè rivendicato come appartenente di diritto agli azeri. E’ del 2010 la pubblicazione ufficiale di un libro dal sinistro titolo Il khanato di Erevan. Nella prefazione, l’attuale presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, scrive: “Erevan fu consegnata all’Armenia dai russi, ma la maggior parte della popolazione era azera. Perciò, dal punto di vista storico, questa terra è nostra”.


venerdì 5 gennaio 2024

Le mille e una notte, di Kader Abdolah (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di Le mille e una notte, di Kader Abdolah (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 3 gennaio.

“Ho basato la mia versione delle Mille e una notte sulla traduzione persiana di Abdollatif Tasuji e sulla rielaborazione di mio nonno e di mio bisnonno (…) In Arabia Saudita Le mille e una notte è un libro completamente diverso dalle versioni che si leggono in Egitto o in Siria, a loro volta diverse dall’edizione persiana”.

Dando seguito a una consolidata tradizione familiare, Kader Abdolah – celebre scrittore iraniano naturalizzato olandese - riscrive la sua personale versione di uno dei libri più famosi e più letti al mondo.

In questa opera non esiste un inizio e una fine, osserva l’autore, ogni storia può essere letta indifferentemente come la prima o l’ultima. Il risultato è come un grande fiume narrativo, paragonabile al Nilo: “La prima volta che vidi l’antico, storico fiume Nilo, rimasi senza parole. Lo stesso stupore che ho provato leggendo questo libro”.

In origine vi furono I mille racconti, un antico libro persiano - spiega Abdolah - Mille era un numero sacro per i persiani, ma gli arabi volevano dimostrare di essere superiori a loro anche sul piano linguistico, così ne aggiunsero una.

Questo immenso e magmatico portato di tradizioni, culture, storie e religioni orientali conosce un momento decisivo agli inizi del Settecento, quando un illuminista francese, Antoine Galland, trova per caso e traduce un paio di novelle. Poi ne trova altre, parte per il Medio Oriente e infine, girando per i mercati, ne raccoglie a centinaia. Sono racconti che in origine furono concepiti per istruire oralmente una popolazione per lo più analfabeta. Circolavano attraverso libretti popolari, cui Galland riesce a dare ordine e sistematicità: un lavoro lungo 12 anni, per un libro di 12 volumi.

Protagoniste indiscusse, in tutto il corso della narrazione, sono le donne: donne intelligenti, abili nel mentire, scaltre e fantasiose nell’escogitare soluzioni per sottrarsi alla prepotenza degli uomini. “Gli uomini sono bestie, non li devi spaventare, soprattutto non a letto. Rimani quindi lì sdraiata e morditi la mano se necessario, non durerà a lungo. Quando hanno finito, ti crollano accanto come morti”.

Shehrazade è l’eroina di tutte le donne orientali: la figlia del visir è bella, colta e furba, con i suoi racconti riesce a ipnotizzare il malvagio sovrano, che odia le donne e che vuole ucciderle dopo averle possedute. Per dirla con le parole di Borges, “Le mille e una notte è un’invasione dell’islam nella cultura occidentale, ma un’invasione fatta con la forza dell’immaginazione”.

sabato 23 dicembre 2023

Uomini contro, di Mirella Serri (Longanesi)

Qui di seguito, la mia recensione di "Uomini contro. La lunga marcia dell'antifemminismo italiano", di Mirella Serri (Longanesi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 20 dicembre.

Nel ricostruire “La lunga marcia dell’antifemminismo italiano”, Mirella Serri prende spunto da una riunione di Direzione del Partito comunista italiano, neanche tanto “storica”. Siamo nel 1961, all’ordine del giorno vi è, fra le altre cose, la nomina di Nilde Jotti alla presidenza della Commissione femminile.

La candidata viene sottoposta a un fuoco di fila di reprimende insopportabili. Amendola fa riferimento alle “questioni personali e familiari già note”; Berlinguer rincara: “Non sono sicuro che possa portare a quel posto di direzione la serenità necessaria”; Pajetta parla esplicitamente di “difetti” che Jotti dovrà “correggere e superare”.

La tesi di Serri è che le donne abbiano dovuto affrontare, dopo la Resistenza e fino agli anni Duemila, un autentico “contrattacco” da parte degli uomini al potere (comunisti, democristiani, berlusconiani) nel tentativo, in parte riuscito, di contrastare la “democrazia paritaria” prefigurata dalla Costituzione.

La storia che lega Jotti al leader storico del Pci, Palmiro Togliatti, è ricostruita nei dettagli. Quando nasce l’idillio, nel ’46, lei ha 26 anni e lui 53. Il Migliore scarica la moglie tra la riprovazione generale dei dirigenti del partito – molti dei quali però si comportano anche peggio. Nilde non avrà mai vita facile: nel ‘48 le viene imputato l’insuccesso elettorale di aprile e l’attentato al segretario a luglio. Solo nel 1979 avrà il meritato riconoscimento, con l’elezione alla presidenza della Camera.

L’altra figura centrale del saggio è quella di Julius Evola, filosofo nazi-fascista, misogino e antisemita. Evola piace al Duce e a Hitler, e sarà il grande ispiratore di un’intera generazione di neofascisti ostili all’Italia repubblicana, compresi gli stupratori del Circeo. L’autore di “Rivolta contro il mondo moderno” (1934) è uno snob, aristocratico e solitario, pittore dadaista e avvezzo alla cocaina. Grande appassionato di orge sessuali promiscue, ammira D’Annunzio e Oscar Wilde. I suoi nemici giurati sono gli ebrei e, inutile dirlo, le donne emancipate.

Particolarmente interessante è il filo che collega il pensiero di Evola al presidente/dittatore Vladimir Putin, la cui “legge sugli schiaffi” ha depenalizzato la violenza domestica in Russia, derubricandola a infrazione amministrativa. E’ Alexsander Dugin, l’ideologo di Putin, a tradurre Evola in russo e a introdurlo nel dibattito pubblico, in una sorta di mescolanza perversa fra fascismo russo e neo-stalinismo.

“La lunga marcia dell’antifemminismo italiano è approdata in Russia e alimenta l’ostilità nei confronti del sistema democratico dell’Occidente”.