lunedì 17 ottobre 2016

Riforma + Italicum: facciamo due conti

Fra le tante balle spaziali propalate ad arte in questi giorni dai sostenitori del No, spicca quella secondo cui non sarebbe la riforma costituzionale, in sé, a comportare il “rischio autoritario”, bensì il combinato disposto fra questa riforma e la nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”.
Secondo questa vulgata, grazie al premio di maggioranza, il governo avrebbe il potere di scegliere il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e chissà cos’altro. Il mantra viene ripetuto ossessivamente dai presunti “esperti” di diritto e politica, che confidano nella scarsa conoscenza della materia da parte del pubblico. Eppure questa critica è semplicemente FALSA, perché la matematica non è un’opinione.
Bastano poche cifre.
Oggi la Costituzione prevede che, per eleggere il Presidente della Repubblica, serva - nei primi tre scrutini - la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori. La riforma non modifica questo punto. Pertanto servono oggi 671 voti su 1006 aventi diritto, domani - con la nuova normativa - 487 voti su 730 (630 deputati più “solo” 100 senatori).
Questo per i primi tre scrutini; ora veniamo al seguito.
Secondo le norme attuali, a partire dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, viceversa la riforma prevede che per i tre scrutini successivi (quarto, quinto e sesto) sia necessaria la maggioranza più alta, dei tre quinti dell’assemblea – cioè 438 voti, con le nuove norme.
Dunque la riforma va nella direzione di una maggiore garanzia per le minoranze, rispetto a oggi.
Con il premio di maggioranza, i seggi attribuiti al governo alla Camera sarebbero 340; perciò la soglia dei due terzi (487) sarebbe in ogni caso irraggiungibile, per quella dei tre quinti (438) occorrerebbe che votassero con il governo 98 senatori su 100.
Quest’ultima ipotesi è del tutto inverosimile, non solo di fatto – le Regioni sono notoriamente di colore politico diverso – ma anche di diritto, poiché la riforma prevede che le regioni più popolose eleggano i senatori assegnandone una quota alle opposizioni.
C’è da aggiungere che, a partire dal settimo scrutinio, la riforma prevede che la maggioranza dei tre quinti sia da calcolare non più sul totale degli “aventi diritto”, bensì solo sui “votanti”. Poiché è da escludere che i l’opposizione non partecipi al voto solo per fare un piacere al governo, questa norma dev’essere intesa come l’indicazione di una possibile via d’ uscita, tramite un accordo almeno con una parte dell’opposizione, per superare un’eventuale situazione di stallo.
In nessun caso, quindi, la maggioranza di governo potrebbe eleggere, da sola, il Presidente della Repubblica. Lo stesso vale per l’elezione dei giudici costituzionali.
Con la riforma, i giudici non sarebbero più eletti a Camere riunite (come accade oggi) ma separatamente: tre dalla Camera e due dal Senato. Le maggioranze richieste sono quelle già indicate: due terzi per i primi tre scrutini, tre quinti nei successivi. Anche in questo caso, chi sostiene che alla Camera il governo potrebbe eleggere da solo i giudici costituzionali, dice il falso: la maggioranza dei tre quinti è di 378, mentre il premio previsto dall’Italicum è di 340 seggi.

Dunque la critica è “matematicamente” infondata. Chi la sostiene non sa contare, oppure mente sapendo di mentire.

2 commenti:

  1. "le regioni più popolose eleggano i senatori assegnandone una quota alle opposizioni".
    E se poi un senatore eletto in quota opposizione cambia casacca, che si fa?

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  2. Nulla. Non si fa nulla perché qualunque rimedio sarebbe maggiore del male. E' un malcostume che però non altera il quadro di garanzie di insieme che la riforma + Italicum ha costruito, dunque non inficia il ragionamento che è alla base di quanto ho scritto

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