Sul finire del ’45, a guerra fredda non ancora iniziata, il catholicos
Kevork VI lancia un appello agli armeni di tutto il mondo, affinché tornino a
popolare l’ultimo pezzo di madrepatria rimasta loro: quella transcaucasica,
sotto il dominio sovietico. La massima autorità religiosa di quel popolo
martoriato teme che la piccola Repubblica sia ridotta a semplice provincia
della Georgia; al contempo, con il benestare di Stalin, lascia intendere che l’Urss
potrebbe riconquistare alcune zone armene in territorio turco, con la
prospettiva per gli esuli di un ritorno alla terra dei padri. Nel triennio
successivo, sono circa centomila gli armeni che, dal Medio oriente e dalla Grecia,
raccolgono l’appello del loro Papa e si consegnano spontaneamente nelle mani di
Stalin. Questo oscuro capitolo della tragica epopea armena, sconosciuto ai più,
è narrato da Giorgio Macor in un romanzo
dalla prosa malinconica.
L’italo-armeno Gregorio trova un fascio di lettere, indirizzate a suo
padre Kevork fra il ‘46 e il ’53, quando la famiglia viveva ancora in Libano.
Le missive, provenienti da Yerevan, sono scritte dall’amico Kirkan ma
soprattutto dalla sorella di costui, Maral, che di Kevork era la fidanzata
segreta. Gregorio penetra, attraverso le parole di Maral, nella vita intima del
padre e nei suoi tormenti giovanili. Le lettere raccontano il rapido disinganno
dei nuovi arrivati, le pessime condizioni di vita, l’estrema modestia della sistemazione
famigliare, la durezza delle privazioni, fino alle assurdità burocratiche del
regime comunista e alla repressione staliniana.
“Abbiamo sbagliato tutto (…) Non dovevamo partire, abbiamo chiuso gli
occhi all’evidenza, qui non gli interessa niente dei destini delle persone, qui
importano i popoli, e allora forse noi sopravvivremo come popolo, e come
persone moriremo uno per uno”.
Lettere da Yerevan è un romanzo doloroso, che utilizza l’espediente
dello scambio epistolare per denunciare la storia di un tragico errore. “Come è
stato possibile cadere in quell’abbaglio, si chiedevano in molti, ma come nei
veri incubi, non avevano la possibilità di uscirne”. Le lettere rivelano un
Kevork debole e irresoluto, succube del padre che lo trattiene in Libano, e una
Maral forte e disillusa, in continua lotta per la sopravvivenza, sommersa da un
mondo oppressivo e angoscioso.
“Nel quartiere sembrava di vivere in un acquario, i vicini parlavano
senza voce come pesci rossi protetti dallo spessore del vetro, apparentemente
nessuno sapeva e nessuno si accorgeva, non facevano domande nonostante non
potessero non avvedersi che qualcuno mancava, e neppure domandavano dove fosse
finito”.
Solo molti anni dopo, Gregorio riuscirà infine a scoprire l’epilogo di
quell’amaro destino.
(Questa recensione è stata pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 11 luglio. Non appare nella edizione on line).
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