Qui di seguito, la mia recensione del bel saggio di Carlo Gambescia su Giano Accame, nel decennale della scomparsa, pubblicata sabato scorso 23 febbraio sul quotidiano Il Foglio.
A dieci anni dalla scomparsa di Giano Accame, uno dei più vivaci e
brillanti intellettuali della destra post-fascista, Carlo Gambescia dedica questo
colto pamphlet all’amico di un tempo, protagonista di innumerevoli e appassionate
discussioni, ricche di affinità elettive.
L’approccio dell’autore è quello tipico del sociologo, volto cioè non
a scrivere una biografia politica di Accame, bensì a individuare le categorie,
le regolarità e le costanti, all’interno di un impianto teorico molto
originale, dal percorso particolare. Parafrasando Hirschman, autore di “Retorica
dell’intransigenza” - uno studio sul linguaggio delle opposizioni politiche
estreme - Gambescia osserva che le idee di Accame furono caratterizzate da una
forma di pensiero mite, aperta, incentrata sulla tolleranza e sulla riflessione.
Una “retorica della transigenza” appunto, che trovava nelle sue grandi doti di
ironia uno strumento prezioso e un elemento di equilibrio.
Come tanti altri intellettuali e politici permeati dalla subcultura
fascista, dopo Mussolini anche Accame è un “esule in Patria”, e subisce una
“integrazione passiva” nell’Italia repubblicana. Egli appartiene tipicamente
all’area del “fascismo di sinistra”, ma – contrariamente agli altri – evita di
restare ghettizzato nella “caverna platonica” dell’isolamento e della chiusura
mentale. Scriverà in seguito: “Sono rimasto fedele alle scelte giovanili per
senso dell’onore, per lealtà verso tante persone per bene che ci hanno lasciato
la pelle, sento ancora il dolore della guerra perduta, ma non mi sento
prigioniero del passato”.
Accame respinge il giacobinismo, poiché diffida degli eccessi di
razionalità, che portano all’imposizione di un progetto prestabilito, calato
dall’alto dal demiurgo di turno. E’ la “sottile vena ironica” lo strumento che
salva l’intellettuale dal dogmatismo, e gli consente di analizzare con spirito
critico anche le vicende storiche più drammatiche. Accame possiede “un
sovrappiù di moderazione”, la sua “retorica della transigenza” lo spinge a
resistere al processo di demonizzazione, tutto incentrato sul conflitto
amico-nemico. Dopo avere paragonato l’illuminismo a una bomba atomica e la
fusione fra gli elementi nazionale e sociale (Urss compresa) a un’esplosione
nucleare, egli scrive: “Ora, dopo una mutazione antropologica che ci ha portati
tutti alla cultura della pace, siamo arrivati a qualcosa che assomiglia, sia
pure con minore energia, alla fusione nucleare controllata. Ci aggiriamo in un
ambito di pensieri deboli (…) la stessa religione della libertà, oggi
minacciata di sfiducia e indifferenza astensionistica, è difficilmente
proponibile nei termini passionali in cui la proponeva Benedetto Croce”.
In forza di queste analisi, Accame approda a un liberalismo realista,
fondato sull’analisi pragmatica del potere, della società e delle forze in
campo. L’ascesa politica di Craxi, ad esempio, lo induce a guardare con interesse
al nuovo corso del “socialismo tricolore”, nazionale e anti-marxista.
“Il fascismo non può più apparire come un semplice incidente, una
‘parentesi’, ma piuttosto come un ponte: l’esperienza italiana, appunto, del
suicidio della rivoluzione. Aggiungiamo: un suicidio che è anche vaccinazione,
di cui può approfittare il riformismo”.
In conclusione, Gambescia ribadisce di non aver voluto, con questo
saggio, rovesciare alcuna carta intellettuale, per presentare un Giano Accame
liberale, dimentico delle sue radici: “Il compito dello stilista storico, che
cura di continuo il look ideologico dei pensatori, per adeguarli ai tempi, lo
lasciamo con piacere ad altri”.
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