Qui di seguito, la mia recensione del romanzo "Il vino dei morti", di Romain Gary (Neri Pozza, 187 pagine, 15 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 14 luglio.
Per
tutti i lettori appassionati di Romain Gary, affezionati al percorso biografico
di un autore sorprendente come pochi altri, questa sua opera prima è
imperdibile: una nuova tessera del complesso mosaico letterario e umano del
grande scrittore francese.
Il
vino dei morti è un tipico romanzo d’esordio, rimasto
inedito fino al 2014, che il giovane Romain scrisse nel 1937, a 23 anni, fra la
modesta pensione di Nizza gestita dalla madre e la sua stanzetta parigina di
studente universitario. Un frutto sicuramente acerbo, tuttavia già rivelatore
di uno stile personalissimo e di uno straordinario talento. L’immaturità
dell’aspirante scrittore è compensata da un vocabolario innovativo e ricchissimo,
e soprattutto da un’esplosiva immaginazione.
Come
una specie di Alice nel paese delle meraviglie, il protagonista Tulipe compie
la sua surreale discesa agli inferi, nel sottosuolo di un cimitero. Lo
sbalordito ma incuriosito visitatore si aggira timoroso in un’atmosfera macabra
e grottesca, la cui aria è resa putrescente e nauseabonda da lamentosi cadaveri
in decomposizione. I queruli morti viventi che affollano il romanzo sono
poliziotti e prostitute, suore e lenoni, condomini litigiosi ed esattori implacabili.
Vermi, topi e scarafaggi si aggirano nei teschi di personaggi stravaganti e
bizzarri; come negli incubi, Tulipe inorridisce e fugge, inciampando però in
altri personaggi ancora più stomachevoli e ripugnanti, senza riuscire a
raggiungere l’uscita.
“Balzò,
beccheggiò, si sparpagliò, si raggomitolò, sbavò, sbraitò, scoreggiò, andò a
sbattere, vomitò, si toccò, urinò, si srotolò, si riarrotolò, si avviluppò, si
contrasse, si mise un dito nell’occhio, nel buco del culo, in bocca, puzzò di
merda, di urina, di capra, di latte materno”.
Il
vino dei morti è il romanzo enologico della corruzione
dei corpi – scrive Riccardo Fedriga nella postfazione - morti viventi che vanno
alla ricerca dei loro personaggi vivi (…) morti che paiono gli inquilini
bislacchi di un cimitero simile a una casa popolare di Belleville, come quella
in cui vive Madame Rosa nella Vita davanti a sé.
“Tutto
Ajar è già in Tulipe”, lascerà infatti scritto Gary nelle carte reperite dopo
il suicidio, nel 1980, in cui rivelerà il segreto del suo pseudonimo. Come a significare
che l’intero percorso era già tutto in nuce nel libro d’esordio.
“…cresceva in lui come un bell’autodafé nel quale si bruciava la miseria, la desolazione, gli sbirri, i rimorsi, l’angoscia e tutte le altre larve e vermi di quell’ignobile piccola puttana sempre più lercia e fetida che chiamiamo anima umana”.
non mi piace per niente, non lo leggerò mai. meglio il libro di Stefan Zweig, che hai recensito qualche tempo fa. come mai ogni tanto riporti brani dei libri (nelle tue recensioni)?
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