mercoledì 20 gennaio 2021

"L'immortale Bartfuss", di Aharon Appelfeld (Guanda)

Qui di seguito, la mia recensione di "L'immortale Bartfuss", di Aharon Appelfeld (Edizioni Guanda, 157 pagine, 16 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di oggi.

“La gente nasce in solitudine. La solitudine è l’unica umanità. La vita di famiglia finisce per portarti alla rovina”. Apparso in Israele nel 1983, L’immortale Bartfuss è un romanzo breve, autobiografico, presentato ora per la prima volta al pubblico italiano, grazie alla bella traduzione di Elena Loewenthal.

Le giornate di Bartfuss sono immerse in quell’atmosfera rarefatta, dai contorni indefiniti, così tipica della prosa di Aharon Appelfeld. Come in altri suoi capolavori, anche quest’ultimo personaggio del grande scrittore israeliano si presenta nei panni di un uomo solitario, chiuso, reduce da traumi orribili, che lo hanno irrimediabilmente marchiato nel corpo e nello spirito.

Barftuss è un sopravvissuto, evaso da un campo di concentramento e scampato davvero per miracolo a una fucilazione, ferite che gli sono valse quell’appellativo glorioso e disturbante, al quale tenta nervosamente di sottrarsi. Eroe in Italia durante la guerra, poi emigrato in Israele, egli si ritrova assediato in una famiglia alla quale è del tutto estraneo, ridotta a una sorta di tacita competizione fra chi è più indifferente.

“Le parole di lui si erano andate diradando. Non parlava quasi più. Non se la prendeva neanche più (…) Le sillabe avevano presto preso la forma di spine. ‘- Me l’hai lasciato? – Cosa? – Quello che ti ho chiesto. – Non me lo ricordo. – Ricordatelo. – Cosa? – Te l’ho detto: denaro per la spesa.’ Alla fine lui glielo dava e usciva”.

L’uomo si alza presto al mattino e vaga senza meta fra le strade di Tel Aviv, da un bar all’altro, fino al mare. Tira a fare tardi la sera, fuma di continuo e beve caffè. Tutto, nel romanzo, concorre a descrivere la solitudine estrema e la radicale incapacità di comunicare del protagonista. Bartfuss non riesce a parlare alla moglie, che ormai lo odia e lo spia, non riesce neppure a recuperare un rapporto con la figlia ritardata, plagiata dalla madre. Lei ammutolisce appena lui entra in casa; lui tace, ma passa le ore a origliare da dietro la porta chiusa della sua stanza spoglia.

Bartfuss trascina così la sua esistenza cupa, avvolta in un enigma indecifrabile, impegnata a “sigillare le brecce attraverso le quali fuoriuscivano i suoi pensieri”. Sembra un anaffettivo, ma in realtà è chiuso in un silenzio doloroso ed ermetico, impenetrabile. I suoi sporadici tentativi di dialogo sono permeati di ostilità, le parole escono smozzicate e faticose, le frasi sono brevi e spesso illogiche. E’ scontroso, irritabile anche nei rari incontri occasionali. Un amico gli chiede del denaro, ma poi impaurito dal prestito, lo rifiuta; un altro non risponde a una domanda e lui lo riempie di schiaffi. Dialoga con una prostituta, con una vecchia amica, gente che ha conosciuto in Italia durante la guerra, sopravvissuti come lui: “Nessuno sapeva cosa fare della sua vita di superstite”. Cerca invano di scuotersi dalla sua ansiosa malinconia.

Nella prefazione, Loewenthal spiega: “Non ci sono eroi, nei romanzi di Appelfeld, ma solo uomini smarriti”.


5 commenti:

  1. Certamente è arduo guarire dai traumi collettivi di circa venti secoli e dagli ultimi, terribili e annichilenti l'anima ridotta al silenzio - Matteo

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  2. E' logico che la letteratura israeliana vada a scavare nell'animo di chi ha subito quelle vicende inenarrabili. In questo, Appelfeld è uno dei più grandi maestri.

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  3. Sei ha vissuto l'esperienza del campo di sterminio, il tuo spirito è morto. Sopravvivi ma solo fisicamente. Pochi sono coloro che ne sono stati capaci. Tra questi vorrei dedicare un ricordo al grande Nedo Fiano.

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  4. bellissima recesione, fa venire voglia di leggerlo

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    1. sinceramente leggerei il libro di Annick Emdin, è più ottimistico.

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