Qui di seguito, la mia recensione di "Il sentiero delle babbucce gialle", di Kader Abdolah (Iperborea, 415 pagine, 19,50 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 28 ottobre.
“Non
avevo intenzione di scrivere un libro. Mi è capitato, come mi sono capitate
tante altre cose (…) Di professione sono cineasta (…) ma ho capito che la letteratura
è l’unica espressione con cui si può raccontare una storia nella sua totalità”.
Anche
l’autore, come Said Sultanpur, è un persiano naturalizzato olandese. Solo che Kader
Abdolah (La casa nella moschea, Uno scià alla corte d’Europa) si è integrato al
punto da essere premiato come uno dei migliori scrittori di lingua nederlandese,
mentre il secondo non può far altro che consegnare un manoscritto lungo e sgrammaticato
all’amico, pregandolo di trarne qualcosa.
Inizia
così, la biografia dolce e dolente, avvincente e drammatica di Sultan – poeta,
drammaturgo e regista di fama internazionale – che viene condannato a morte due
volte, la prima (poi commutata in ergastolo) da un tribunale dello Scià; la
seconda dal regime teocratico dell’ayatollah Khomeini.
Sultan
è un bambino sensibile, curioso. Vive esperienze crude: il sesso, in una
cittadina di provincia, possono essere le coetanee provocanti e precoci, ma
anche i bulli di paese che ti vogliono violentare. Il ragazzo è intraprendente
e innamorato, fotografa tutto e tutti, aiuta la cugina più grande a organizzare
un corso di inglese per sole donne. Si procurano una trentina di banchi, si presentano
276 ragazze. La modernizzazione iraniana è lenta e farraginosa, incontra difficoltà,
ostilità, violenza.
“Nella
piazza del boulevard aprì un cinema. Religiosi e fedeli si erano opposti a
lungo all’iniziativa, ma alla fine la polizia li costrinse ad accettarla (…)
Naturalmente il proprietario non era musulmano, ma un immigrato armeno di religione
cristiana. Gli armeni esercitavano tutte le attività vietate ai musulmani. Così
in città c’era anche un caffè dove si servivano alcolici”.
Sultan
abbandona la macchina fotografica a vantaggio della cinepresa, diventa un
regista famoso e acclamato, il corso degli eventi lo sospinge lungo un sentiero
sempre più avventuroso, con scelte difficili e rischiose: aiuta la resistenza
nelle azioni più temerarie, viene scoperto, imprigionato, torturato e
condannato a morte. Graziato, passerà dieci lunghi anni nelle carceri dello
Scià, fino alla rivoluzione del 1979.
Sultan
viene liberato dalla folla che invade il carcere, ma l’illusione della libertà
è breve: “L’ayatollah Khomeini pronunciò una fatwa: il cinema è haram!
Le sale cinematografiche sono luoghi di peccato”.
Per
il regista che da bambino leggeva i gialli di Mickey Spillane, la strada è
segnata. Non gli resta che riprendere la strada pericolosa dell’opposizione, della
resistenza, della fuga, dell’esilio.
“C’era un folto gruppo di imam ad aspettarlo, chi con il turbante bianco, chi con il turbante nero. Quando l’ayatollah comparve sul balcone, agitarono il pugno scandendo slogan. La trovai una scena spaventosa: quegli imam si preparavano a detenere il potere per i futuri cent’anni almeno. Era la storia che per un istante prendeva corpo nei loro panni. Stavo filmando la storia”.
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