Il suo vero
nome è Malika, non Miriam; non è ebrea, ma rom. Poco più che adolescente, Malika
è stata imprigionata, chiusa in convento, poi deportata ad Auschvitz, infine trasferita
a Ravensbruck. Prima di scendere dal vagone merci, dove è stata picchiata da
alcune “politiche”, scambia il vestito lacerato con quello di una ragazza morta
durante il viaggio. Su quel braccio è inciso un numero quasi simile al suo. Su
quella manica è cucita una stella gialla. (...)
La Axelsson
si sottrae magistralmente a tutte le astuzie che lo spunto narrativo sembra
offrirle, ai tanti luoghi comuni che oggi costituiscono l’armamentario di un
certo antisemitismo “soft”: l’accusa agli ebrei di voler monopolizzare il
genocidio, i paragoni odiosi con chi avrebbe “sofferto di più”, il tentativo
“sociale”, cioè ideologico, di banalizzare la Shoah. (...)
A questo link, la mia recensione di "Io non mi chiamo Miriam", di Majgull Axelsson (Edizioni Iperborea) pubblicata su Il Foglio di lunedì 10 luglio.
http://www.ilfoglio.it/libri/2017/07/10/news/io-non-mi-chiamo-miriam-143669/
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