domenica 27 aprile 2025

Storia e oblio del Genocidio Armeno

Qui di seguito, la mia recensione di "Non ti scordar di me. Storia e oblio del Genocidio Armeno", di Vittorio Robiati Bendaud (Liberilibri) pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di venerdì 25 aprile.

Il genocidio armeno e quello ebraico sono strettamente interconnessi: quanto più si risale alle origini dell’uno, tanto più si trovano elementi comuni con l’altro. Con un approccio particolare e originale, Vittorio Robiati Bendaud offre una interpretazione “religiosa” di entrambe le grandi tragedie del Novecento.

“Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno” (Liberilibri, 180 pagine,18 euro) è un saggio di carattere “pionieristico”, scrive Antonia Arslan nella postfazione; possiede cioè un carattere “inedito”, e forse offre “la giusta chiave per lucchetti che attendevano di essere aperti”.

Anche se Metz Yeghern (il “Grande Male”, così gli armeni chiamano la cancellazione del loro popolo) è stato realizzato dal nazionalismo laico dei Giovani Turchi e poi ultimato da Ataturk, le sue radici lontane affondano nell’istituto islamico della dhimma, lo status di sottomissione cui gli armeni (come gli ebrei e altre minoranze cristiane) erano sottoposti da secoli nell’ambito dell’impero ottomano.

“Solo l’archetipo misogino – scrive Bendaud –  basato sulla subalternità della donna dominata al maschio dominante, spiega e rende tristemente ben evidente nel sistema politico-religioso della dhimma il significato di parole quali protezione, fedeltà, infedeltà, ribellione, arroganza, nonché l’unilateralità assoluta di tali giudizi”.

Analogamente, la Shoah avviene fattualmente per mano dei nazisti, ma scaturisce dalla sedimentazione di un substrato plurisecolare di antigiudaismo cristiano.

Centrali, nell’analisi di Bendaud, sono gli studi dello storico tedesco Stefan Ihrig e della filosofa cattolica americana Siobhan Nash-Marshall. Entrambi mettono in rilievo come l’anti-armenismo tedesco, di impronta schiettamente razzista, abbia preparato il terreno per l’odio antiebraico del nazismo. I grandi massacri degli armeni a fine Ottocento sono l’avvio del processo genocidario, e possono contare sulla piena copertura ideologica e politica della Germania guglielmina. Nel 1898 il Kaiser Guglielmo II si proclama a Damasco “amico  dei musulmani di tutto il mondo”, mentre gli intellettuali del Reich definiscono gli armeni “razza astuta e sediziosa” e propongono lo stereotipo dell’ “usuraio armeno”, fino alla definizione degli armeni come “super-ebrei”: un accostamento che ispirerà Adolf Hitler, anch’egli alla ricerca – come la nuova Turchia – di uno “spazio vitale” per il popolo tedesco e di una “soluzione finale” per una minoranza mostrificata.

Il saggio si conclude con riferimenti di strettissima attualità: “E’ individuabile un fil rouge nel modus operandi del dispotismo islamico – da Abdul Hamid II al contemporaneo Ilham Aliyev, dai Fratelli Musulmani a Hamas, dal tardo Ottocento ai giorni nostri (…): si tratta del ribaltamento della realtà e della sua mistificazione, raggiungendo livelli paradossali di menzogna”. E ancora: “L’indipendenza di questo antico popolo cristiano risulta insopportabile (…) Una situazione non dissimile da quanto accade a Israele: minuscolo nei fatti, ma enorme nell’ossessione di una soverchiante maggioranza arabo-islamica che si estende, sovrana e indiscussa, su territori immensi”.

lunedì 21 aprile 2025

"Il mio grande, bellissimo odio", di Elisabeth Asbrink (Iperborea)

 Qui di seguito la mia recensione di "Il mio grande, bellissimo odio", di Elisabeth Asbrink (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 16 aprile.

L’odio a cui fa riferimento la scrittrice svedese Victoria Benedictsson (1850-1888) è un sentimento misto di “rabbia” e “indignazione”, che la spinge a ribellarsi alla sua condizione di donna, predestinata a una vita squallida e sottomessa, nella Scandinavia protestante della seconda metà dell’800.

Grazie alla sensibilità di Elisabeth Asbrink, scopriamo l’esistenza breve e tormentata di un’autrice oggetto di studio e di culto nel suo paese, ma mai pubblicata in Italia.

La vita sofferta della Benedictsson, assai più delle sue opere, è al centro dell’indagine psicologica dell’autrice, che si concentra sulle origini, l’infelice matrimonio, la lotta per l’emancipazione e la fuga dall’ambiente desolato in cui è rinchiusa la donna, fino al tragico suicidio, a soli 38 anni, a Copenhagen.

Dopo averle impedito di proseguire negli studi, il padre la manda in sposa troppo giovane a un uomo troppo vecchio, un vedovo modesto e sgradevole, padre di numerosi figli. Un’imposizione che si rivelerà catastrofica e che lascerà un’impronta negativa indelebile nell’esistenza della donna. Presto incinta, Victoria si rivelerà una cattiva madre e, alla seconda gravidanza, sarà capace di peccati tormentosi e inconfessabili.

Asbrink ricostruisce, passo dopo passo, i faticosi tentativi di uscita di Benedictsson dalla sua disperante condizione di donna di provincia. Victoria scrive con abnegazione, manda i suoi racconti alle riviste letterarie e ai giornali. Riesce a farsi pubblicare solo ricorrendo - come altre importanti scrittrici dell’800 - a uno pseudonimo maschile. Infine, ecco giungere il riconoscimento del suo talento e il successo.

Centrale, nella vita della scrittrice, è l’incontro con Georg Brandes, autore, critico letterario, brillante conferenziere e polemista. Victoria lo ammira, se ne invaghisce, cerca per suo tramite di accedere alla borghesia colta e benestante di Copenhagen. Ma la sessualità di lei è ormai appassita e l’interesse del donnaiolo Brandes sfuma rapidamente. Siamo all’epoca di Ibsen e di Nietzsche, temi moralmente scottanti quali femminismo, sessualità, matrimonio, voto alle donne, prostituzione sono al centro di un infuocato dibattito pubblico.

La scrittrice è ormai affermata e apprezzata, ma ciò non le garantisce l’autonomia finanziaria, né placa la sua insicurezza interiore e la depressione autodistruttiva.

“Victoria Benedictsson si vergogna profondamente (…) sprofonda nell’umiliazione e nell’angoscia. Al termine della lettura, dice di voler morire. Ci sono tre cose stupide da cui bisogna stare alla larga, risponde Brandes. La rassegnazione, l’ottundimento – vale a dire bere per sedarsi – e il suicidio. Lui conosce la tentazione di ottundersi. Benedictsson risponde di preferire il suicido”.

venerdì 4 aprile 2025

Salmo 44, di Danilo Kiš (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di "Salmo 44", di Danilo Kiš (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 2 aprile.

“Già da qualche tempo mormoravano che avrebbero tentato la fuga prima dell’evacuazione del campo. Soprattutto da quando (cinque o sei notti prima) avevano sentito tuonare i cannoni in lontananza, per la prima volta”. La guerra sta per finire, i tedeschi stanno smobilitando e devono proteggere la ritirata. Si apre uno spiraglio: Maria, con la sua piccola creatura, e Jeanne devono tentare la fuga.

Quando scrive questo breve romanzo d’esordio, nel 1960, Danilo Kis ha appena 25 anni, ma è destinato a diventare un grande protagonista della prosa e poesia jugoslava. La letteratura cosiddetta “concentrazionaria” è agli albori: in Italia nel 1958 Einaudi ha finalmente pubblicato Se questo è un uomo, l’anno seguente L’ultimo dei Giusti vince in Francia il premio Goncourt.

“Salmo 44” è un testo difficile, dal ritmo sincopato, scritto in una prosa dura e sofferta. L’autore stesso, al momento della pubblicazione, espresse il timore di essere stato troppo diretto e crudo. Maria, giovane neo-madre, nel cuore della notte è divisa fra orrore e speranza: accanto a sé ascolta il rantolo dell’amica Polja (“Elle va mourir à l’aube”) mentre stringe al petto il neonato Jan, frutto di un amore clandestino con Jakub, il medico ebreo che nel campo gode di una posizione privilegiata e che orchestra il tentativo di evasione.

“Aveva ricevuto da Jakub il messaggio che il campo sarebbe stato evacuato (…) A quel punto, con l’aiuto di Jakub e Max, era stata trasferita a Birkenau ed era sfuggita ancora una volta alla morte, ma aveva dovuto separarsi da Jakub. Forse per sempre”.

Culmine del romanzo è il dialogo fra i due medici, l’ebreo e il nazista, quest’ultimo dal cognome emblematico: dottor Nietzsche. Un confronto minaccioso, carico di sottintesi, significativo di un contesto assurdo e irrazionale:

“Supponiamo che le venga ordinato un certo esperimento con un gruppo di prigionieri di cui lei sa, per qualche ragione, che saranno comunque uccisi (…) Non proverebbe un interesse professionale, scientifico, nel poter condurre esperimenti su creature vive, su esseri umani? (Lo riconosca: l’uomo è lo scopo ultimo di ogni esperimento)”.

Le ore sembrano ferme, nel buio. Il tempo non passa, è sempre “quasi mezzanotte” e Maria, fra gli orrori e l’angoscia, è costretta a ricordare. Ricorda l’odio antisemita, l’abominevole massacro di Novi Sad, fino a che non si sente pervadere da un nuovo tipo di paura, quella che lei definisce “paura attiva”. E’ il momento di muoversi.

“Avanzava carponi nel buio, strisciando dietro a Jeanne, arrampicandosi verso un orizzonte invisibile. Come se il sangue e altri succhi trasudassero dalla terra stessa e dall’aria. All’improvviso capì che erano arrivate al filo spinato”.