Qui di seguito, la mia recensione di "Salmo 44", di Danilo Kiš (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 2 aprile.
“Già da qualche tempo mormoravano che avrebbero tentato la fuga prima dell’evacuazione del campo. Soprattutto da quando (cinque o sei notti prima) avevano sentito tuonare i cannoni in lontananza, per la prima volta”. La guerra sta per finire, i tedeschi stanno smobilitando e devono proteggere la ritirata. Si apre uno spiraglio: Maria, con la sua piccola creatura, e Jeanne devono tentare la fuga.
Quando
scrive questo breve romanzo d’esordio, nel 1960, Danilo Kis ha appena 25 anni, ma
è destinato a diventare un grande protagonista della prosa e poesia jugoslava.
La letteratura cosiddetta “concentrazionaria” è agli albori: in Italia nel 1958
Einaudi ha finalmente pubblicato Se questo è un uomo, l’anno seguente L’ultimo
dei Giusti vince in Francia il premio Goncourt.
“Salmo
44” è un testo difficile, dal ritmo sincopato, scritto in una prosa dura e
sofferta. L’autore stesso, al momento della pubblicazione, espresse il timore
di essere stato troppo diretto e crudo. Maria, giovane neo-madre, nel cuore
della notte è divisa fra orrore e speranza: accanto a sé ascolta il rantolo
dell’amica Polja (“Elle va mourir à l’aube”) mentre stringe al petto il
neonato Jan, frutto di un amore clandestino con Jakub, il medico ebreo che nel
campo gode di una posizione privilegiata e che orchestra il tentativo di evasione.
“Aveva
ricevuto da Jakub il messaggio che il campo sarebbe stato evacuato (…) A quel
punto, con l’aiuto di Jakub e Max, era stata trasferita a Birkenau ed era
sfuggita ancora una volta alla morte, ma aveva dovuto separarsi da Jakub. Forse
per sempre”.
Culmine
del romanzo è il dialogo fra i due medici, l’ebreo e il nazista, quest’ultimo dal
cognome emblematico: dottor Nietzsche. Un confronto minaccioso, carico di
sottintesi, significativo di un contesto assurdo e irrazionale:
“Supponiamo
che le venga ordinato un certo esperimento con un gruppo di prigionieri di cui
lei sa, per qualche ragione, che saranno comunque uccisi (…) Non proverebbe un
interesse professionale, scientifico, nel poter condurre esperimenti su
creature vive, su esseri umani? (Lo riconosca: l’uomo è lo scopo ultimo di ogni
esperimento)”.
Le
ore sembrano ferme, nel buio. Il tempo non passa, è sempre “quasi mezzanotte” e
Maria, fra gli orrori e l’angoscia, è costretta a ricordare. Ricorda l’odio
antisemita, l’abominevole massacro di Novi Sad, fino a che non si sente
pervadere da un nuovo tipo di paura, quella che lei definisce “paura attiva”.
E’ il momento di muoversi.
“Avanzava carponi nel buio, strisciando dietro a Jeanne, arrampicandosi verso un orizzonte invisibile. Come se il sangue e altri succhi trasudassero dalla terra stessa e dall’aria. All’improvviso capì che erano arrivate al filo spinato”.
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