Qui di seguito, la mia recensione di La fornace, di Thomas Bernhard (Adelphi) apparsa a pagina 2 del quotidiano Il Foglio di giovedì 20 ottobre.
Come
tutti i romanzi di Bernhard, anche La fornace - uscito nel 1970 e ora ripubblicato
da Adelphi - prende le mosse da un fatto tragico e definitivo: Konrad, il tormentato
e nevrotico protagonista, ha ucciso la moglie inferma sparandole a bruciapelo
con un fucile da caccia. Non c’è scampo, non c’è salvezza, per i personaggi
bernhardiani: sono contrassegnati in partenza da un’aporia, un finale preannunciato
e ineludibile, e sono destinati a soccombere. Il lettore lo sa, dalle prime
righe.
Il
resto del romanzo non è che la rappresentazione minuziosa e ripetitiva, martellante,
di una duplice ossessione: la fornace innanzitutto, ambiente lugubre e kafkiano,
freddo e vuoto, ansiogeno come nessun altro, con le sbarre alle finestre e le
porte sprangate; e lo stesso Konrad, un uomo che racchiude in sé alcuni fra i
peggiori difetti dell’essere umano.
Konrad
è nevrotico e forse anche psicotico, è vessatorio e maniacale, frustrato da una
fissazione che lo tormenta da decenni: la stesura di un saggio sull’udito, del
quale ha a malapena concepito il sommario, ma che sostiene di avere “tutto
nella testa”. Ovviamente, egli imputa a fattori esterni (luoghi, persone) la
sua incapacità/impossibilità di scrivere, per questo tortura la moglie con
esperimenti estenuanti e terribili. A tratti la consapevolezza sembra farsi
strada in lui, ma la coazione a ripetere ha sempre il sopravvento, e conduce all’atroce
epilogo.
“La
nostra meta era la fornace, la nostra meta era la morte attraverso la fornace (…)
questo non poteva che condurre prima alla disperazione, poi all’inaridimento
mentale e affettivo, e infine alla malattia e alla morte”.
Questo
ambiente, e questa fissazione, sono il romanzo stesso. Nei lavori di Bernhard, si
illude chi crede di rintracciare una trama, una storia. “Io sono un tipico
distruttore di storie”, disse di sé in un’intervista l’autore austriaco. Nell’anno
della scomparsa (1989) Aldo Gargani scrisse che l’intera opera di Bernhard
“rappresenta la più potente e drastica domanda di senso del nostro tempo (…)
una spirale espressiva nella quale senso e non senso, verità e menzogna, realtà
e finzione risultano inestricabilmente intrecciati, come dannati compagni di
viaggio di un’ossessione mortale”. La fornace compendia bene questo
giudizio.
“La
loro vita in comune era stata uno sbaglio sin dall’inizio, ma, a essere
sinceri, avrebbe detto Konrad a Fro, quale vita in comune non è sbagliata,
quale matrimonio non è completamente sbagliato, insensato, e quindi, una volta avvenuto,
non diventa insincero, spaventoso, quale amicizia non è inganno, quante fra le
persone che convivono possono dire in tutta sincerità di essere felici o
perlomeno di essere ancora sé stesse?”
Nel rappresentare la follia di Konrad, Thomas Bernhard - considerato forse il maggiore scrittore di lingua tedesca della seconda metà del Novecento - trova anche lo spazio per un’autocitazione: “Mi rimandava a quel suo connazionale che fa lo scrittore, il quale, a leggere i suoi scritti, non poteva che sembrare un pazzo che scrive, mentre era proprio tutto il contrario di un pazzo”.
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