venerdì 26 novembre 2021

Crisi della civiltà liberale e destino dell'Occidente, di Gianpietro Berti (Rubbettino)

Qui di seguito, la mia recensione di "Crisi della civiltà liberale e destino dell'Occidente", di Giampietro Berti (Rubbettino, 625 pagine, 28 euro) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 24 novembre.

 A chi abbia a cuore le sorti dell’Occidente liberale e sia appassionato alla battaglia delle idee, Giampietro Berti mette a disposizione un libro imperdibile. In questa lunga e ricca galleria di pensatori e filosofi della prima metà del Novecento, non manca nessuno: si possono incontrare Lenin e Goebbels, ma anche Einstein e Freud. Basta scorrere l’indice delle dieci sezioni del volume, per restare affascinati dalla complessità del lavoro di ricerca e sistematizzazione dell’intera opera.

Il percorso antologico è incentrato sulla crisi della coscienza europea, nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, e prende le mosse dal rapporto irrisolto fra democrazia e liberalismo, agli inizi del XX secolo.

Ancora oggi, più di un secolo dopo, desta impressione quanto anche le migliori intelligenze fossero appannate, alla viglia del conflitto che segnò la tragica fine della Vecchia Europa. Quasi tutti gli intellettuali, in tutti i paesi, furono favorevoli alla guerra. E’ un elenco sterminato e sconcertante, con poche eccezioni: Romain Rolland, Kafka, Russel, Einstein, Artuhr Schnitzler e Karl Kraus.

L’impostazione dell’intero volume è di impianto tipicamente popperiano: lo scontro, nel XX secolo così come alla nascita del pensiero occidentale, è sempre fra società aperta e società chiusa – una dicotomia che prende avvio dalla contrapposizione antica fra Atene e Gerusalemme, fra filosofia e teologia, più tardi fra illuminismo e messianesimo.

Il concetto stesso di modernità, spiega Berti, è inseparabile dal processo di secolarizzazione: il capitalismo può svilupparsi, perché fondato sulla libertà degli individui. Ma modernità e capitalismo non necessariamente coincidono: anche le rivoluzioni, che sono una reazione alla “anomia” generata dal capitalismo, sono un aspetto della modernità. Il capitalismo è un fatto spontaneo, di natura economico-sociale, viceversa le rivoluzioni sono per lo più atti deliberati, di natura politica. I veri protagonisti di queste ultime non sono le masse, con le loro condizioni materiali, bensì le élites, in particolare gli intellettuali frustrati dalla insopportabilità della loro condizione psicologica ed esistenziale.

La storia non va “necessariamente” da nessuna parte, ricorda Berti: né verso la società comunista (Marx) né verso la società liberale (Fukuyama). “I problemi che assillano l’umanità – la conclusione è affidata a Luciano Pellicani - si risolvono con la scienza, le idee razionali, la tecnologia, il pragmatismo e la rinuncia all’idea di salvezza”.

1 commento:

  1. deve essere un libro molto bello. ottima la tua osservazione, che le rivoluzioni non sono provocate dalle masse (anche la Rivoluzione francese non fu provocata dalle masse?). complimenti anche per la citazione di Luciano Pellicani.

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