giovedì 16 luglio 2020

"Midland a Stilfs", di Thomas Bernhard (Adelphi)


“Per noi Stilfs non è, come si è detto, un luogo ideale, bensì micidiale. La nostra esistenza è un’esistenza micidiale (…) Per tutti, è sempre stato la quintessenza del silenzio e del raccoglimento, mentre in realtà non è mai stato altro che un covo ad alta quota di ottusità e imbecillità, un centro di imbecillità culturale”.
Anche in questi tre racconti, il primo dei quali dà il titolo al volume, Thomas Bernhard tratta dei temi ricorrenti, a lui da sempre congeniali, quali la nevrosi, la malattia mentale, il suicidio. (...)
Le parole di Midland sono disturbanti e la sua presenza a Stilfs risulta deleteria: “Se oggi tutto è anacronismo, come ha detto l’Inglese ieri, Stilfs dev’essere un anacronismo ben grande! Sarebbe logico, sarebbe coerente che noi ci suicidassimo senza indugiare, perché l’unica coerenza ancora possibile per noi, oggi, è quella di suicidarci”. (...)
A questo link, la recensione completa di "Midland a Stilfs", di Thomas Bernhard (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 15 luglio.

lunedì 13 luglio 2020

Lettere da Yerevan, di Giorgio Macor (Neos Edizioni)


Sul finire del ’45, a guerra fredda non ancora iniziata, il catholicos Kevork VI lancia un appello agli armeni di tutto il mondo, affinché tornino a popolare l’ultimo pezzo di madrepatria rimasta loro: quella transcaucasica, sotto il dominio sovietico. La massima autorità religiosa di quel popolo martoriato teme che la piccola Repubblica sia ridotta a semplice provincia della Georgia; al contempo, con il benestare di Stalin, lascia intendere che l’Urss potrebbe riconquistare alcune zone armene in territorio turco, con la prospettiva per gli esuli di un ritorno alla terra dei padri. Nel triennio successivo, sono circa centomila gli armeni che, dal Medio oriente e dalla Grecia, raccolgono l’appello del loro Papa e si consegnano spontaneamente nelle mani di Stalin. Questo oscuro capitolo della tragica epopea armena, sconosciuto ai più, è narrato da Giorgio Macor  in un romanzo dalla prosa malinconica.
L’italo-armeno Gregorio trova un fascio di lettere, indirizzate a suo padre Kevork fra il ‘46 e il ’53, quando la famiglia viveva ancora in Libano. Le missive, provenienti da Yerevan, sono scritte dall’amico Kirkan ma soprattutto dalla sorella di costui, Maral, che di Kevork era la fidanzata segreta. Gregorio penetra, attraverso le parole di Maral, nella vita intima del padre e nei suoi tormenti giovanili. Le lettere raccontano il rapido disinganno dei nuovi arrivati, le pessime condizioni di vita, l’estrema modestia della sistemazione famigliare, la durezza delle privazioni, fino alle assurdità burocratiche del regime comunista e alla repressione staliniana.
“Abbiamo sbagliato tutto (…) Non dovevamo partire, abbiamo chiuso gli occhi all’evidenza, qui non gli interessa niente dei destini delle persone, qui importano i popoli, e allora forse noi sopravvivremo come popolo, e come persone moriremo uno per uno”.
Lettere da Yerevan è un romanzo doloroso, che utilizza l’espediente dello scambio epistolare per denunciare la storia di un tragico errore. “Come è stato possibile cadere in quell’abbaglio, si chiedevano in molti, ma come nei veri incubi, non avevano la possibilità di uscirne”. Le lettere rivelano un Kevork debole e irresoluto, succube del padre che lo trattiene in Libano, e una Maral forte e disillusa, in continua lotta per la sopravvivenza, sommersa da un mondo oppressivo e angoscioso.
“Nel quartiere sembrava di vivere in un acquario, i vicini parlavano senza voce come pesci rossi protetti dallo spessore del vetro, apparentemente nessuno sapeva e nessuno si accorgeva, non facevano domande nonostante non potessero non avvedersi che qualcuno mancava, e neppure domandavano dove fosse finito”.
Solo molti anni dopo, Gregorio riuscirà infine a scoprire l’epilogo di quell’amaro destino.

(Questa recensione è stata pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 11 luglio. Non appare nella edizione on line).