Del barone
russo Alexander von Wrangel, Jan Brokken aveva già anticipato qualcosa nel suo bellissimo
Anime baltiche, di pochi anni fa. In
questo Il Giardino dei cosacchi ne fa
un testimone d’eccezione, l’io narrante di un romanzo tutto incentrato sulla vita
aspra e drammatica di Fedor Dostoevskij. Di origini tedesco-baltiche - “Ma io
non ho mai desiderato altro che essere russo” - Wrangel aveva assistito da
giovanissimo alla messinscena della fucilazione, sospesa solo in extremis, di
un gruppo di intellettuali, fra cui lo stesso Dostoevskij, giudicati pericolosi
cospiratori, la cui pena era poi stata commutata nei lavori forzati al confino.
Alcuni anni
dopo, poco più che ventenne, il barone entra a far parte dell’amministrazione
giudiziaria zarista e viene destinato a una sperduta cittadina della Siberia
centrale, ai confini con Cina e Kazakistan. Qui Wrangel ritrova Dostoevskij,
che ha scontato gli anni peggiori in un “katorga”
siberiano – i campi di lavoro penale che nel ‘17 saranno ribattezzati “gulag” – ed è poi stato esiliato in
quella stessa località. Fra i due nasce un’intima amicizia. (...)
Sulla
natura di questa amicizia non è lecito coltivare equivoci, avverte Brokken in
una nota. “E’ imbarazzante che Sigmund Freud, nella sua analisi di Dostoevskij,
si basi in pratica esclusivamente sui ricordi della figlia. Il fatto che
Dostoevskij accettasse che Marija, sia prima che dopo il loro matrimonio,
avesse una relazione con il maestro di scuola, era secondo Freud indicazione di
latente omosessualità”. (...)
A questo link, la mia recensione completa del romanzo, pubblicata su Il Foglio di sabato 6 maggio.
http://www.ilfoglio.it/libri/2017/05/08/news/il-giardino-dei-cosacchi-133343/
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