venerdì 18 ottobre 2024

La terza pallottola, romanzo d'esordio di Leo Perutz

Qui di seguito, la mia recensione di La terza Pallottola, di Leo Perutz (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 16 ottobre.

“Di tanto in tanto riaffiora nella mia anima un giorno dimenticato, perso. Allora mi rivedo compiere atti folli o efferati, senza senso e scopo, tanto che suscitano in me meraviglia, scherno o persino collera. Gesù, come è potuto accadere che un tempo, in una terra lontana, io uccidessi un nobile sovrano?”

La terra lontana cui accenna l’io narrante è il Nuovo Mondo, dove prosperano in pace civiltà millenarie in procinto di essere sterminate dagli spagnoli di Cortés. Ma il tedesco e luterano Grumbach detesta i cattolici di Carlo V e parteggia per Montezuma, rendendo la vita difficile ai conquistadores impegnati nell’assedio di Tenochtitlàn.

Uscito nel 1915, mentre è già in corso la grande tragedia che porterà alla scomparsa della Mitteleuropa, La terza pallottola è il romanzo d’esordio di Leo Perutz, praghese di famiglia ebraica secolarizzata, che suscita subito l’attenzione del pubblico e della critica. Scritto in una prosa ricca, potente e immaginifica, il libro ottiene un notevole successo.

Nel prologo, il protagonista non ricorda. E’ febbricitante, confuso, in uno stato di semi-incoscienza. Solo all’epilogo le frasi smozzicate e vaghe delle prime pagine saranno infine chiare al lettore. L’impianto narrativo è quello tipico del romanzo storico, ambientato nel XVI secolo, accompagnato però da elementi propri della letteratura fantastica. Ne risulta una trama sospesa in un’atmosfera onirica, con continui scarti narrativi, in cui fattori realistici e magici si alternano in forma imprevista.

“Va’ per la tua strada dunque! – urlò a Grumbach – E la maledizione di Dio ti segua, discenda su di te, portandoti miseria e tormento! E la prima pallottola colpisca il tuo re pagano, la seconda la tua puttanella infernale, e la terza… - In quel momento il boia gli passò il cappio intorno al collo e lo spinse giù dalla scala. Garcia Novarro però non voleva morire prima di aver completato la sua atroce maledizione (…) Allora, tra sibili e rantoli soffocati, dalla gola dell’impiccato uscirono queste parole: E la… terza… è… per te!”.

Non stupisce che Borges nutrisse grande ammirazione per Perutz e per la sua tecnica narrativa, che verosimilmente ha ispirato almeno alcuni dei racconti del grande scrittore argentino. Negli ultimi anni Perutz tenta un difficile ritorno da Israele alla sua amata Vienna, ma incontra molte difficoltà. Come Kafka, come Svevo, anch’egli ha condotto una vita professionale modesta, impiegatizia. Dopo la morte, nel 1957, lo scrittore precipita nell’oblio, come il protagonista del suo romanzo d’esordio. Solo di recente si giunge alla riscoperta di un autore ingiustamente considerato “minore”, in realtà fra i più interessanti e significativi della Mitteleuropa.

venerdì 27 settembre 2024

APPELLO PER LA GEORGIA

Qui di seguito, il mio Appello per la Georgia, pubblicato in prima pagina sul quotidiano Il Riformista di mercoledì 25 settembre.

Alla vigilia delle elezioni parlamentari in Georgia, previste per il prossimo 26 ottobre, il destino della democrazia di quel paese appare appeso a un filo.

Fortissimo è il rischio che queste elezioni siano alterate e truccate dal partito di governo (Sogno Georgiano, di orientamento filorusso) come è avvenuto nel Venezuela di Nicolas Maduro alle elezioni del luglio scorso.

Le recenti vicende in Georgia, caratterizzate da aspri scontri politici e grandi manifestazioni di piazza,  presentano analogie impressionanti con  gli avvenimenti che segnarono la storia dell’Ucraina dieci anni or sono.

Anche in Ucraina, infatti, un governo ambiguo e corrotto tentò, nel corso del 2013, di interrompere il processo di avvicinamento del paese all’Unione Europea e di rinsaldare un asse privilegiato con Mosca. Tuttavia, in quella occasione, la rivolta popolare e democratica di EuroMaidan ottenne la cacciata del corrotto Janukovich e aprì la strada alla svolta filo-occidentale di Kyiv.

Memore di quella esperienza, Vladimir Putin e i suoi sodali georgiani ora sono pronti a fare carte false, pur di impedire che la Georgia passi nel campo europeo e occidentale. Nei mesi scorsi, incurante delle immense manifestazioni di protesta, il governo in carica ha approvato la famigerata “Legge contro le ingerenze straniere”, in realtà un dispositivo illiberale che consente al governo di agire arbitrariamente contro qualsiasi partito di opposizione. Non a caso, durante la campagna elettorale, il leader populista Bidzina Ivanishvili e il primo ministro Kobakhidze hanno apertamente proclamato l’intenzione di sciogliere tutti i partiti della coalizione d’opposizione (Movimento Nazionale Unito) in caso di vittoria elettorale. La legge approvata, purtroppo, glielo potrebbe consentire facilmente.

Fra pochi giorni, pertanto, il destino della Georgia potrebbe essere segnato.

Il rischio di brogli è altissimo, da parte di un governo che si è rivelato privo di qualsiasi scrupolo democratico. L’Unione Europea deve vigilare attentamente, mantenendo alta l’asticella degli standard elettorali ed esigendo il rispetto degli impegni sottoscritti. Già in passato, proprio un’eccessiva accondiscendenza da parte della UE ha fornito al governo l’alibi per condurre in porto i suoi disegni illiberali. Gli Stati Uniti, da parte loro, si sono detti molto allarmati per la deriva autoritaria degli avvenimenti. L’Occidente ha il dovere di impedire a Putin di disporre a suo piacere dei destini del Caucaso. La Nato deve dimostrarsi pronta a estendere il suo scudo protettivo ai popoli che ne facciano liberamente richiesta, come già avvenuto in passato per molti paesi dell’area ex-sovietica e più di recente con Svezia e Finlandia.

Attraverso questo giornale, rivolgiamo un accorato appello ai direttori di tutte le testate, affinché sulla drammatica vicenda georgiana si accendano i riflettori e si mantenga ben desta l’attenzione dell’opinione pubblica italiana ed europea.

L’aspirazione del popolo georgiano a un futuro di sviluppo, benessere, libertà e democrazia, deve vivere.

(Questo il link all'articolo: https://www.ilriformista.it/georgia-la-democrazia-e-appesa-ad-un-filo-il-piano-di-putin-per-impedire-lentrata-in-ue-ad-un-mese-dalle-elezioni-439092/ )

 

 

 

 

mercoledì 31 luglio 2024

"Bébi, il primo amore", di Sandor Marai (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di "Bebi, il primo amore", romanzo d'esordio di Sandor Marai, pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di giovedì 25 luglio, con il titolo "Nel taccuino di un professore di latino c'è già tutta la grandezza di Marai".

“Questo è il mistero più grande. Il mistero di come un essere umano finisce per guastarsi. E rimanere solo. E’ come se parlasse nel vuoto: la sua voce non si sente. Gli altri non lo capiscono. Cammina sulla loro stessa strada… ma non arriva da nessuna parte. Gira in tondo, intorno a sé stesso”.

Adelphi pubblica il romanzo d’esordio di Sandor Marai (1900-1989) che appena ventottenne già rivela uno straordinario talento letterario. Bebi, il primo amore è un racconto molto coinvolgente, di impronta psicologica, incentrato sulla figura di un meticoloso e logoro insegnante di latino, in un liceo della provincia ungherese, in epoca asburgica.

L’autore di Le braci ricorre all’espediente del taccuino, al quale il professore affida le sue amare riflessioni, per penetrare nell’animo del protagonista. Questi sembra uno di quei tipici personaggi che alcuni decenni più tardi caratterizzeranno i romanzi di Thomas Bernhard: è chiuso, ripetitivo, irritabile, nevrotico. I limiti angusti del microcosmo in cui si è trincerato gli impediscono di vedere ciò che invece appare chiarissimo al lettore. E’ anaffettivo, apatico, stanco. L’anedonia gli impedisce di apprezzare anche solo la bellezza di un paesaggio montano.

Tutta la prima parte del romanzo, circa un terzo del volume, è una sorta di lunga ambientazione, volta a descrivere il carattere del protagonista e il suo male di vivere. Nella sua impenetrabile solitudine, l’uomo si concede – unica eccezione in ventotto anni – una vacanza estiva in uno squallido albergo montano. Per quanto diffidente e sulla difensiva, il vecchio professore riesce a instaurare un dialogo con un altro avventore. Questi, inaspettatamente, con poche parole, mette l’uomo di fronte alla sua incapacità di condurre un’esistenza normale, a causa di una solitudine dai tratti visibilmente patologici. Il vecchio vorrebbe riflettere, ma se ne dichiara incapace. Lo considera un vizio pericoloso: “Una volta che si comincia a riflettere su sé stessi, a insistere si rischia di diventare matti”.

Il ritorno in città segna il passaggio nel vivo del romanzo. L’insegnante si trova ad affrontare un fatto inedito: gli viene assegnata un’ottava classe, cioè l’ultimo anno di liceo, composta da diciottenni; inoltre – novità assoluta e spiazzante – fra questi vi sono ben sei ragazze.

Il professore confida al taccuino il suo disagio, riflessioni ingenue ma premonitrici. Le sue attenzioni si concentrano in particolare su due giovani: Màdar, un ragazzo povero ma eccellente studioso, di gran lunga il più dotato della classe; e Margit Cserey, ragazza esile e appena graziosa, che gradualmente diviene l’oggetto morboso delle sue attenzioni senili. Con il passare dei mesi, l’insegnante procede passo dopo passo verso l’inevitabile dramma finale, in un crescendo di irritazione e di errori che si riveleranno fatali. “Sono sempre stato un tipo introverso. Ci sono alcune cose che mi mettono in imbarazzo e mi innervosiscono in modo estremo. Per quel che riguarda la sfera fisica, l’intimità mi provoca un grandissimo disagio”.

 

 

venerdì 17 maggio 2024

Appuntamento a Kronstadt, di Edgar Reichmann (Atlantide)

Qui di seguito, la mia recensione di Appuntamento a Kronstadt, di Edgar Reichmann (Edizioni Atlantide) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 15 maggio. 

La Kronstadt di cui si parla qui è la città romena di Brasov - Kronstadt sotto gli Asburgo - nella Romania transcarpatica ai confini con l’Ungheria. Per alcuni anni, dopo la seconda guerra mondiale, assumerà il nome sinistro di “Città di Stalin”. Apparso con successo in Francia nel 1984, Appuntamento a Kronstadt è ora pubblicato per la prima volta in Italia.

Arnim Stern si reca in Spagna a trovare il vecchio amico Ariel: entrambi sono ebrei romeni in esilio. Arnim è un intellettuale fragile, tormentato da incubi e allucinazioni che lo accompagnano da sempre. Ariel, ai tempi di Brasov/Kronstadt, era invece un ebreo povero e suo compagno di giochi nell’adolescenza; di volta in volta è stato amico del cuore, rivale in amore, comunista al potere, infine “amico ritrovato” ma sempre ambiguo e sfuggente.

L’autore adotta una tecnica narrativa particolare: rimbalza di continuo dalla prima alla terza persona. Ne risulta un romanzo dal ritmo sincopato, dall’atmosfera sospesa, sempre in bilico fra il mondo reale e le orribili visioni oniriche del protagonista.

In attesa di incontrare Ariel, stranamente assente da casa, Arnim ricorda la Kronstadt della guerra, una sorta di terra di mezzo fra occupanti tedeschi e notabili locali, fino ai bombardamenti e alle più immani tragedie. L’avvento al potere dei comunisti comporta nuove angosce, un regime oppressivo cui Arnim riesce a sottrarsi per un soffio, proprio grazie all’intervento di Ariel.

“Avevo appreso che il porto marittimo di Costanza era chiuso agli emigranti in partenza per Haifa. Le autorità temevano il malcontento di coloro che restavano, perché la collera popolare avrebbe potuto esplodere di fronte allo spettacolo degli ebrei che lasciavano in massa il paese”.

Dopo un breve tentativo di stabilirsi in Israele, Arnim si trasferisce a Parigi, dove conduce un’esistenza da esiliato, senza tuttavia riuscire a sottrarsi alla violenza sotterranea della Guerra fredda. L’intellettuale ebreo sradicato ed errante fatica a distinguere fra le proprie allucinazioni e una realtà anch’essa minacciosa. Infine decide di cercare riparo dall’amico, che ora è ricco e vive in Galizia.

“Perché quello che più mi ossessiona al di là dell’erranza, lo porto nascosto nel profondo senza averne chiara coscienza: un desiderio sessuale di morte, un’inconfessabile ricerca che mi conduca alla certezza della reversibilità di questo viaggio senza ritorno. Più che il bisogno del radicamento, ciò che mi tormenta è la nostalgia di un’origine perduta ancora prima della più antica delle Storie”. Illuminante una citazione di Edmond Jabès: ieri è oblio, domani è silenzio.

venerdì 26 aprile 2024

Terra Eolica, di Ilias Venezis (Settecolori)

Qui di seguito, la mia recensione di Terra Eolica, di Ilias Venezis (Ed. Settecolori) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 24 aprile.

 “Quando si ritirarono le onde dell’Egeo, e presero a sorgere dal fondo le montagne di Lesbo umide, lucenti e placide, le onde videro stupefatte l’isola, la loro nuova amica. Erano abituate a viaggiare dalle parti del mar di Creta e a spegnersi sulla spiagge dell’Anatolia, e quel che sapevano di terraferma non era altro che duri monti, franti enormi scogli, terra di gialla pietra. Questa qui, con la nuova isola, era tutt’altra cosa – oh quanto differente!”.

Terra Eolica è un romanzo meraviglioso, poetico e onirico, sempre sul crinale fra mito arcaico e cronaca di vita quotidiana. E’ la storia di una terra antica e delle sue millenarie vicissitudini umane. Ilias Venezis, uno dei maggiori autori greci del Novecento, lo scrive nel 1943, cioè nel pieno dell’occupazione nazifascista del suo paese: una scelta che gli costa l’arresto, 23 durissimi giorni di carcere, il rischio della fucilazione. In precedenza aveva scritto Il Numero 31328 (Settecolori 2022) in cui aveva raccontato la sua orribile vicenda di prigioniero e schiavo dei turchi, dopo la cacciata dei greci della costa anatolica dalle terre in cui avevano vissuto e prosperato per tre millenni.

“Per ultimi gli uomini, ultimi fra tutte le creature che vivono presso i Kimidenia poiché di tutte essi sono gli estremi, accolgono il messaggio. Giunge con denso fragore il maroso, viaggia, è percosso e si frange, sempre più si gonfia, e sempre più impazza: ‘Arriva! La tempesta è in arrivo! E’ in arrivo la guerra!’ E mentre le stelle sulla Terra Eolica osservano imperturbabili, i cuori degli uomini ammutoliti si aprono perché vi entri la Paura - i cuori degli sventurati uomini”.

Il romanzo racconta la storia di una famiglia benestante e della sua bella azienda agricola, narrata attraverso lo sguardo stupito di un bambino. Il piccolo Pietro scruta con rispetto e ammirazione il nonno patriarca, intuisce il primo amore innocente della sorella maggiore, racconta di cacciatori e contrabbandieri, di briganti e contadini, dell’orsa e dell’aquila. Amore e morte si alternano nelle vicende umane, infine il mondo precipita verso la rovina: le placide famiglie greche stanno per essere spazzate via per sempre dal turbine della storia.

“Cos’è? – Non è niente, dice timorosamente il nonno, come un bambino colpevole. Non è niente. Un po’ di terra è. – Terra ! – Sì, un po’ di terra del loro paese. Per piantarci il basilico, le dice, nel posto straniero in cui vanno. Per ricordare. Lentamente, le dita del vecchio schiudono il fazzoletto dov’è custodito il terreno. Frugano lì dentro, frugano anche le dita della nonna, come ad accarezzarlo. I loro occhi, in lacrime, si fermano lì. – Non è niente, ti dico. Un po’ di terra. – Terra, Terra Eolica, Terra del mio paese”. 

sabato 6 aprile 2024

La grande fortuna, di Olivia Manning (Fazi )

Qui di seguito, la mia recensione di La grande fortuna, di Olivia Manning (Fazi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 3 aprile.

Scrittrice di successo del secondo Novecento inglese, ma poco nota in Italia, Olivia Manning è celebre soprattutto per due trilogie: la “trilogia balcanica” e la “trilogia del Levante”. La grande fortuna è il primo di questa serie di sei romanzi, di impianto schiettamente autobiografico, uscito nel 1960.

Harriet e Guy, sposi novelli, si trasferiscono in Romania nel corso di un angoscioso 1939. Lui conosce già il paese, in cui insegna inglese; lei invece, con il passare dei giorni, scopre al contempo le bizzarrie danubiane e quelle del marito. Guy è capace di grandi slanci idealistici, di pericolosi eccessi di generosità, ma anche di un’ostinazione invincibile. La sposina fatica a integrarsi e a tenere in equilibrio il rapporto di coppia, circondata com’è da uno stuolo di personaggi eccentrici e pittoreschi, nobili pretenziosi, fannulloni squattrinati, giornalisti pigri e chiacchieroni.

“Certo lei ha sentito la storia del rumeno che passeggia con l’amico tedesco, e gli indica il prezzo di tutte le donne che incontrano. Santi numi, dice il tedesco, ma non ci sono donne oneste da queste parti? Certo, gli risponde il rumeno, ma quelle costano un occhio della testa”.

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, la Romania è un paese socialmente fragile, politicamente bloccato, attraversato dalla violenza nazionalista e pervaso da un radicato odio antiebraico. Bucarest è popolata da uno stuolo di contadini affamati e di cenciosi mendicanti. Solo lo spiccato British humour dell’autrice riesce a combinare tragedia e facezia, dando vita a un romanzo perennemente in bilico fra l’incalzare della storia e lo snobismo dei vari personaggi.

“Per Bucarest, la caduta della Francia equivaleva alla caduta della civiltà. Tutti credevano che la Francia fosse la culla della cultura, dell’arte e della moda, delle opinioni liberali e del concetto stesso di libertà (…) La vittoria dei nazisti sarebbe stata la vittoria delle tenebre”.

In questo contesto, Guy decide di allestire uno spettacolo shakespeariano – splendida metafora dell’Europa che si culla nelle proprie illusioni, a fronte della tragedia ormai incombente. Tuttavia egli esclude bruscamente la moglie dalla scena, mortificandola in una mansione marginale.

“Harriet aveva giudicato quella fuga dalla realtà ancor meno giustificabile perché era lui che, nei giorni trascorsi assieme prima della guerra, aveva sostenuto la necessità di una guerra antifascista, una guerra che, Guy lo sapeva, sarebbe calata come una mannaia tra lui e i suoi amici in Inghilterra. Spesso citava i versi di una poesia: ‘E così bevo alla tua salute, prima che il calcio del fucile bussi alla porta’. Beh, il fucile aveva bussato, e Guy dov’era?”.

giovedì 7 marzo 2024

L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani

Qui di seguito, la mia recensione del libro "L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani", di Heinrich e Richard von Coudenhove-Kalergi (Mimesis) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.

Chi furono in realtà i Kalergi, fautori di quel famigerato “piano”, che esalta gli amanti delle teorie cospirative? Ci aiuta a scoprirlo Vincenzo Pinto, storico e germanista, curatore di un saggio dal notevole interesse anche filosofico.

Il volume è diviso in due parti. Nelle prime 80 pagine, Richard von Coudenhove-Kalergi (1894-1972) spiega “L’odio attuale per gli ebrei”, proprio del suo tempo: siamo nel 1935 e Hitler è al potere da un paio d’anni. Nella seconda parte, invece, lo stesso Richard ripubblica il saggio di suo padre Heinrich (1859-1906) che nel 1901 aveva scritto “L’essenza dell’antisemitismo”, un ampio saggio di carattere storico e teologico, dall’antichità all’età moderna, fino a Lutero.

I Kalergi, padre e figlio, sono due aristocratici mitteleuropei di stampo illuminato e tollerante. Colti e raffinati, amanti di Schopenhauer e Nietzsche, intendono contrastare il dilagante nazionalismo tedesco, di cui l’antisemitismo è l’aspetto più irrazionale.

Il disprezzo e l’odio verso una minoranza religiosa e nazionale viene esaminato da Richard nei suoi aspetti psicologici più reconditi. “Per amore della sua fede, l’ebraismo ha affrontato una guerra mondiale di duemila anni contro tutta l’Europa”. L’antisemitismo è una reazione sia al capitalismo che al comunismo, perché gli ebrei sono accusati al contempo di essere bolscevichi e banchieri. “Il sionismo fece di tutto per chiarire la questione ebraica, creando un nazionalismo ebraico. Diminuì il disprezzo verso gli ebrei, ma ne aumentò l’odio. Da casta disprezzata, il sionismo sta trasformando l’ebraismo in una nazione odiata”.

L’antisemitismo razziale, spiega ancora Kalergi jr., è basato su un fondamento pseudo-scientifico: sembra una rivelazione, ma nasce da un pregiudizio infantile che si trasforma in psicosi di massa. Non solo Gesù Cristo era ebreo, ma anche tutti i suoi discepoli, compresi i quattro autori del Nuovo Testamento. Quanto ai popoli dell’Europa, “sono così meticci che non si può parlare di una razza pura”.

Agli albori del nazismo, l’autore osserva preoccupato: “Il colpo inferto agli ebrei tedeschi è solo un monito, perché nessuno sa se sia un apice o un preludio”. Quanto al sionismo, nonostante gli ammirevoli risultati ottenuti, “il futuro di questa creazione resta incerto”.

“Uno dei prodotti più riusciti della filosofia politica dei Kalergi – scrive Pinto nelle conclusioni – consisterebbe nel piano di sostituzione etnica della ‘razza bianca europea’, attribuito all’europeista Richard. Tanto i Coudenhove-Kalergi quanto George Soros appaiono come i diabolici ‘angeli caduti’ che fomentano la distruzione dell’umanità, oppure come i visionari sostenitori di un mondo aperto, integrato e libero”.