domenica 29 giugno 2025

"La sposa incatenata", di Chaim Grade (Giuntina)

Qui di seguito, la mia recensione di "La sposa incatenata", di Chaim Grade (Giuntina) pubblicata in seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di giovedì 12 giugno, con il titolo "Un mondo scomparso. Chaim Grade racconta il complicato rapporto fra l'ebraismo e la modernità".

“Sulla strada del ritorno, il cantore dice a Merl di chiamarsi Kalman Maytes. Di professione fa l’imbianchino, ma negli ultimi tempi non c’è lavoro. (…) Ha sentito le donne dire che è sola. Le vuole chiedere dov’è suo marito… Non è tornato dalla guerra? La guerra ormai è finita da così tanti anni, perché non va dai rabbini a chiedere il permesso di risposarsi? Lui è vedovo già da diversi anni e non può più sopportare la solitudine”.

A partire da La moglie del rabbino (2019) Giuntina ha dato il via alla pubblicazione in Italia delle opere del grande scrittore ebreo lituano Chaim Grade. Nato a Vilna in una famiglia ortodossa, Grade si sottrae alla soffocante rigidità del suo ambiente e prende parte attiva al processo di secolarizzazione del mondo askenazita. L’intera sua famiglia è soppressa nella Shoah, lui si salva in Unione sovietica. Successivamente emigra negli Stati Uniti, dove diviene uno dei più importanti autori di letteratura yiddish del XX secolo.

Dopo Fedeltà e tradimento (2021) ora è la volta di La sposa incatenata, romanzo bellissimo, avvincente, ricco di suspense e di continui colpi di scena. E’ la storia di una tipica disputa rabbinica, infinita e tormentosa, che finisce per sconvolgere, in un crescendo drammatico, l’intera comunità ebraica di Vilna, la “Gerusalemme del Baltico”.

“Non voglio entrare in questo genere di congetture domestiche – replica con rabbia rov Levi – Io mi attengo alla legge. L’opinione di rabbi Eliezer di Verdun è minoritaria. E la legge non la segue, poiché i pilastri della dottrina rabbinica sono contro di lui. E anche il giudice della via Polotsk è solo contro l’intero consiglio rabbinico di Vilna”.

Quella fra il più autorevole rabbino della città, che si oppone dogmaticamente, e il più modesto giudice del quartiere in cui abita Merl, che le concede il permesso di risposarsi mosso da compassione, non è la sola antinomia che attraversa il romanzo. Vi è anche quella, assai più moderna, fra una donna operosa, dal carattere aperto e solare, e l’odioso Morits, corteggiatore villano e sempre respinto, che tramuterà il suo scorno in gelosia, invidia e desiderio di vendetta.

Merl potrebbe infischiarsene dei rabbini e sposarsi laicamente, ma non vuole dare un dispiacere alla sua anziana madre, né vuole ritrovarsi in un matrimonio pessimo e infelice come quello delle due sorelle. A causa dell’ambiente rigido e tradizionalista che la circonda, la donna si ritrova “incatenata”, cioè  invischiata in una serie di regole assurde. Così lo scontro religioso interno al rabbinato si inasprisce e si estende.

“Rabbi, abbiate pietà di voi stesso, di vostra moglie e dei vostri figli, e fate ciò che i rabbini vi chiedono – Merl a stento rimane in piedi, vorrebbe gettarsi a terra e abbracciare le ginocchia di rov Doved – Mi sono separata da mio marito e non intendo sposarmi con nessun altro. Ero un’agunà e tornerò a esserlo“. “Non vi ho dato il permesso per farvi un favore, ma perché così dice la legge della Torà”, è la replica del rabbino alla donna.

La calunnia comincia a serpeggiare fra gli ebrei di Vilna e si trasforma in un fiume in piena. Il popolino si lascia abbindolare, la gelosia rode l’anima, anche le persone più pure perdono la reputazione. Nell’incalzare degli avvenimenti, la commedia si trasforma in dramma, il dramma in tragedia.

La sposa incatenata parla di un mondo antico e scomparso, ma è anche un romanzo psicologico, di eccezionale modernità proprio per la capacità dell’autore di scavare nell’animo dei protagonisti, alla ricerca di pensieri fra i più inconfessabili e reconditi. Un libro incentrato sul difficile rapporto fra ebraismo e modernità, tradotto dall’yiddish da tre esperti di assoluto valore.

Pochi anni dopo gli avvenimenti romanzati da Grade, gli ebrei orientali e le loro tradizioni millenarie saranno espulsi dall’umanità, brutalmente e per sempre.

 

 


venerdì 23 maggio 2025

"La scoperta dell'Olanda", di Jan Brokken (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di "La scoperta dell'Olanda", di Jan Brokken (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 21 maggio.

 “L’Hotel Spaander è fallito. Colpa del Covid”. Comincia con queste desolate parole il nuovo viaggio nel passato di Jan Brokken, che stavolta ci conduce nella cattolica Volendam, per molti decenni cuore pulsante dell’impressionismo olandese ed europeo, a cavallo dell’Otto-Novecento.

Grazie a un geniale imprenditore e alla sua impareggiabile consorte, a partire dal 1881 l’Hotel Spaander si rivela il perfetto crocevia di una miriade di artisti, che vi trovano il luogo ideale per la loro creatività e i loro bagordi.

“Dall’esterno l’hotel non ha niente di particolare: un edificio signorile davanti, un ostello sul retro. Ma con undici atelier al pianterreno e soprattutto esposti a nord, quindi con la luce ideale al mattino, era perfetto per gli artisti”. Spaander invia cartoline con vedute di Volendam alle accademie di tutta Europa, si reca a Londra per entrare in contatto con altri artisti, appende all’ingresso il ritratto di un pittore con la scritta “Benvenuto, artista”. Una volta al mese, i coniugi offrono una sontuosa cena a tutti gli ospiti, e una grande festa da ballo.

“Gli artisti che frequentavano l’Hotel Spaander arrivavano da ogni parte d’Europa e, alla fine, da tutto il mondo. In totale si stabilirono a Volendam ben 1863 artisti – pittori, incisori, scultori, illustratori, fotografi – di cui 1461 provenienti dall’estero. E ben 1400 di loro presero alloggio allo Spaander”.

Fra i tanti ospiti illustri, un raffinato Marcel Proust nota una delle figlie di Spaander, Wilhelmina, e la definisce “deliziosa”. Nel 1905, costei posa nuda per Picasso: dopo infinite peripezie, nel 1959 “La Belle Hollandaise” sarà battuto da Sotheby’s a Londra per 55.000 sterline, la cifra più alta mai sborsata fino a quel momento per un artista vivente.

“All’Hotel Spaander si contemplano insieme urbanità e decadenza – scrive Brokken - Marken era povera, austera, piccola, bigotta, protestante; la cattolica Volendam era mondana. All’epoca si diceva che a Marken si prendeva la tubercolosi e a Volendam la sifilide”.

La guerra porta discordia fra gli ospiti dello Spaander, fra i quali si contano moltissimi tedeschi e austriaci. Agli inizi degli anni Venti muta il vento: tragedie familiari e cambi generazionali trasformano l’albergo in una pittoresca meta turistica. Volendam continua ad attirare le più celebri personalità da tutto il mondo, ma dal punto di vista artistico e culturale la “mania dell’Olanda” è ormai acqua passata.

La scoperta dell’Olanda” non è solo un bel racconto. Il volume è anche un vero e proprio libro d’arte, in cui sono riprodotte circa 70 opere, meno note di altre ma tutte di altissimo livello qualitativo. Anche sotto questo profilo, lo stile di Brokken si conferma superlativo. 

domenica 27 aprile 2025

Storia e oblio del Genocidio Armeno

Qui di seguito, la mia recensione di "Non ti scordar di me. Storia e oblio del Genocidio Armeno", di Vittorio Robiati Bendaud (Liberilibri) pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di venerdì 25 aprile.

Il genocidio armeno e quello ebraico sono strettamente interconnessi: quanto più si risale alle origini dell’uno, tanto più si trovano elementi comuni con l’altro. Con un approccio particolare e originale, Vittorio Robiati Bendaud offre una interpretazione “religiosa” di entrambe le grandi tragedie del Novecento.

“Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno” (Liberilibri, 180 pagine,18 euro) è un saggio di carattere “pionieristico”, scrive Antonia Arslan nella postfazione; possiede cioè un carattere “inedito”, e forse offre “la giusta chiave per lucchetti che attendevano di essere aperti”.

Anche se Metz Yeghern (il “Grande Male”, così gli armeni chiamano la cancellazione del loro popolo) è stato realizzato dal nazionalismo laico dei Giovani Turchi e poi ultimato da Ataturk, le sue radici lontane affondano nell’istituto islamico della dhimma, lo status di sottomissione cui gli armeni (come gli ebrei e altre minoranze cristiane) erano sottoposti da secoli nell’ambito dell’impero ottomano.

“Solo l’archetipo misogino – scrive Bendaud –  basato sulla subalternità della donna dominata al maschio dominante, spiega e rende tristemente ben evidente nel sistema politico-religioso della dhimma il significato di parole quali protezione, fedeltà, infedeltà, ribellione, arroganza, nonché l’unilateralità assoluta di tali giudizi”.

Analogamente, la Shoah avviene fattualmente per mano dei nazisti, ma scaturisce dalla sedimentazione di un substrato plurisecolare di antigiudaismo cristiano.

Centrali, nell’analisi di Bendaud, sono gli studi dello storico tedesco Stefan Ihrig e della filosofa cattolica americana Siobhan Nash-Marshall. Entrambi mettono in rilievo come l’anti-armenismo tedesco, di impronta schiettamente razzista, abbia preparato il terreno per l’odio antiebraico del nazismo. I grandi massacri degli armeni a fine Ottocento sono l’avvio del processo genocidario, e possono contare sulla piena copertura ideologica e politica della Germania guglielmina. Nel 1898 il Kaiser Guglielmo II si proclama a Damasco “amico  dei musulmani di tutto il mondo”, mentre gli intellettuali del Reich definiscono gli armeni “razza astuta e sediziosa” e propongono lo stereotipo dell’ “usuraio armeno”, fino alla definizione degli armeni come “super-ebrei”: un accostamento che ispirerà Adolf Hitler, anch’egli alla ricerca – come la nuova Turchia – di uno “spazio vitale” per il popolo tedesco e di una “soluzione finale” per una minoranza mostrificata.

Il saggio si conclude con riferimenti di strettissima attualità: “E’ individuabile un fil rouge nel modus operandi del dispotismo islamico – da Abdul Hamid II al contemporaneo Ilham Aliyev, dai Fratelli Musulmani a Hamas, dal tardo Ottocento ai giorni nostri (…): si tratta del ribaltamento della realtà e della sua mistificazione, raggiungendo livelli paradossali di menzogna”. E ancora: “L’indipendenza di questo antico popolo cristiano risulta insopportabile (…) Una situazione non dissimile da quanto accade a Israele: minuscolo nei fatti, ma enorme nell’ossessione di una soverchiante maggioranza arabo-islamica che si estende, sovrana e indiscussa, su territori immensi”.

lunedì 21 aprile 2025

"Il mio grande, bellissimo odio", di Elisabeth Asbrink (Iperborea)

 Qui di seguito la mia recensione di "Il mio grande, bellissimo odio", di Elisabeth Asbrink (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 16 aprile.

L’odio a cui fa riferimento la scrittrice svedese Victoria Benedictsson (1850-1888) è un sentimento misto di “rabbia” e “indignazione”, che la spinge a ribellarsi alla sua condizione di donna, predestinata a una vita squallida e sottomessa, nella Scandinavia protestante della seconda metà dell’800.

Grazie alla sensibilità di Elisabeth Asbrink, scopriamo l’esistenza breve e tormentata di un’autrice oggetto di studio e di culto nel suo paese, ma mai pubblicata in Italia.

La vita sofferta della Benedictsson, assai più delle sue opere, è al centro dell’indagine psicologica dell’autrice, che si concentra sulle origini, l’infelice matrimonio, la lotta per l’emancipazione e la fuga dall’ambiente desolato in cui è rinchiusa la donna, fino al tragico suicidio, a soli 38 anni, a Copenhagen.

Dopo averle impedito di proseguire negli studi, il padre la manda in sposa troppo giovane a un uomo troppo vecchio, un vedovo modesto e sgradevole, padre di numerosi figli. Un’imposizione che si rivelerà catastrofica e che lascerà un’impronta negativa indelebile nell’esistenza della donna. Presto incinta, Victoria si rivelerà una cattiva madre e, alla seconda gravidanza, sarà capace di peccati tormentosi e inconfessabili.

Asbrink ricostruisce, passo dopo passo, i faticosi tentativi di uscita di Benedictsson dalla sua disperante condizione di donna di provincia. Victoria scrive con abnegazione, manda i suoi racconti alle riviste letterarie e ai giornali. Riesce a farsi pubblicare solo ricorrendo - come altre importanti scrittrici dell’800 - a uno pseudonimo maschile. Infine, ecco giungere il riconoscimento del suo talento e il successo.

Centrale, nella vita della scrittrice, è l’incontro con Georg Brandes, autore, critico letterario, brillante conferenziere e polemista. Victoria lo ammira, se ne invaghisce, cerca per suo tramite di accedere alla borghesia colta e benestante di Copenhagen. Ma la sessualità di lei è ormai appassita e l’interesse del donnaiolo Brandes sfuma rapidamente. Siamo all’epoca di Ibsen e di Nietzsche, temi moralmente scottanti quali femminismo, sessualità, matrimonio, voto alle donne, prostituzione sono al centro di un infuocato dibattito pubblico.

La scrittrice è ormai affermata e apprezzata, ma ciò non le garantisce l’autonomia finanziaria, né placa la sua insicurezza interiore e la depressione autodistruttiva.

“Victoria Benedictsson si vergogna profondamente (…) sprofonda nell’umiliazione e nell’angoscia. Al termine della lettura, dice di voler morire. Ci sono tre cose stupide da cui bisogna stare alla larga, risponde Brandes. La rassegnazione, l’ottundimento – vale a dire bere per sedarsi – e il suicidio. Lui conosce la tentazione di ottundersi. Benedictsson risponde di preferire il suicido”.

venerdì 4 aprile 2025

Salmo 44, di Danilo Kiš (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di "Salmo 44", di Danilo Kiš (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 2 aprile.

“Già da qualche tempo mormoravano che avrebbero tentato la fuga prima dell’evacuazione del campo. Soprattutto da quando (cinque o sei notti prima) avevano sentito tuonare i cannoni in lontananza, per la prima volta”. La guerra sta per finire, i tedeschi stanno smobilitando e devono proteggere la ritirata. Si apre uno spiraglio: Maria, con la sua piccola creatura, e Jeanne devono tentare la fuga.

Quando scrive questo breve romanzo d’esordio, nel 1960, Danilo Kis ha appena 25 anni, ma è destinato a diventare un grande protagonista della prosa e poesia jugoslava. La letteratura cosiddetta “concentrazionaria” è agli albori: in Italia nel 1958 Einaudi ha finalmente pubblicato Se questo è un uomo, l’anno seguente L’ultimo dei Giusti vince in Francia il premio Goncourt.

“Salmo 44” è un testo difficile, dal ritmo sincopato, scritto in una prosa dura e sofferta. L’autore stesso, al momento della pubblicazione, espresse il timore di essere stato troppo diretto e crudo. Maria, giovane neo-madre, nel cuore della notte è divisa fra orrore e speranza: accanto a sé ascolta il rantolo dell’amica Polja (“Elle va mourir à l’aube”) mentre stringe al petto il neonato Jan, frutto di un amore clandestino con Jakub, il medico ebreo che nel campo gode di una posizione privilegiata e che orchestra il tentativo di evasione.

“Aveva ricevuto da Jakub il messaggio che il campo sarebbe stato evacuato (…) A quel punto, con l’aiuto di Jakub e Max, era stata trasferita a Birkenau ed era sfuggita ancora una volta alla morte, ma aveva dovuto separarsi da Jakub. Forse per sempre”.

Culmine del romanzo è il dialogo fra i due medici, l’ebreo e il nazista, quest’ultimo dal cognome emblematico: dottor Nietzsche. Un confronto minaccioso, carico di sottintesi, significativo di un contesto assurdo e irrazionale:

“Supponiamo che le venga ordinato un certo esperimento con un gruppo di prigionieri di cui lei sa, per qualche ragione, che saranno comunque uccisi (…) Non proverebbe un interesse professionale, scientifico, nel poter condurre esperimenti su creature vive, su esseri umani? (Lo riconosca: l’uomo è lo scopo ultimo di ogni esperimento)”.

Le ore sembrano ferme, nel buio. Il tempo non passa, è sempre “quasi mezzanotte” e Maria, fra gli orrori e l’angoscia, è costretta a ricordare. Ricorda l’odio antisemita, l’abominevole massacro di Novi Sad, fino a che non si sente pervadere da un nuovo tipo di paura, quella che lei definisce “paura attiva”. E’ il momento di muoversi.

“Avanzava carponi nel buio, strisciando dietro a Jeanne, arrampicandosi verso un orizzonte invisibile. Come se il sangue e altri succhi trasudassero dalla terra stessa e dall’aria. All’improvviso capì che erano arrivate al filo spinato”.

martedì 18 marzo 2025

"Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo", di Diego Gabutti.

 Qui di seguito, la mia recensione di "Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo", di Diego Gabutti (Neri Pozza) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 12 marzo.

“Quello fu un momento unico. Mutui facili, affitti bassi, lavoro a tempo indeterminato, buone scuole, le vacanze, il tennis, le settimane bianche, soldi in tasca, Sex Revolution. Non s’era mai visto niente di simile nella storia del mondo”.

E’ divertente la galoppata con cui Diego Gabutti attraversa gli anni Ottanta, i “dieci anni che sconvolsero il mondo”. Un viaggio scanzonato e irriverente, con ampie escursioni dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, dal tono sarcastico e caustico, in un libro stracolmo di riferimenti filosofici, letterari, cinematografici e di costume.

Il decennio si apre idealmente con la vittoria a sorpresa di Ronald Reagan nelle elezioni americane, preceduta di un anno e mezzo da un episodio analogo: l’ascesa per la prima volta di una donna al governo della Gran Bretagna, Margaret Thatcher, altra protagonista indiscussa del cambio di paradigma. Anche in Italia, in ottobre, succede una cosa strana: la leggendaria Marcia dei Quarantamila, che a Torino seppellisce l’egemonia dei sindacati e chiude idealmente il lungo e violento ’68 nostrano. Il decennio “maledetto” e “reazionario” in realtà da noi vede la fine dell’egemonia democristiana, con la guida del governo assegnata prima a Giovanni Spadolini poi a Bettino Craxi.

In altra parte del mondo, nello stesso 1980, l’Unione sovietica invade l’Afghanistan, una scelta che si rivelerà catastrofica per le sorti del comunismo, al pari della decisione di puntare sulle capitali europee gli SS20, i nuovi missili nucleari a testata multipla. Ancora nel 1980 inizia il conflitto fra Iran e Iraq, che durerà quasi l’intero decennio, causando un milione di morti nella “Guerra Dimenticata”.

Sempre nell’80, in Polonia, il sindacato Solidarnosc manda in tilt il potere comunista; l’anno seguente il Papa polacco riuscirà miracolosamente a salvarsi da un oscuro tentativo di omicidio.

Gli anni Ottanta non sono solo rose e fiori: un mese dopo l’elezione di Reagan, John Lennon muore assassinato a New York; la morte per overdose di John Belushi (1982) chiude simbolicamente la stagione della cultura delle droghe, cha aveva caratterizzato le precedenti correnti underground; la scoperta dell’Aids segna la fine della festa per la generazione della Sex Revolution.

Il decennio dell’avvento al potere del computer si chiude con il crollo del Muro di Berlino e il fallimento planetario del comunismo. Ma “l’ombra del Muro di Berlino non si è ancora del tutto dissolta – avverte Gabutti – E’ un’ombra persistente, l’ombra della divisione del mondo, di qua l’Occidente (com’è sempre stato) e di là (com’è sempre stato) un minaccioso Eldorado metafisico. E’ il Muro mai abbattuto che separa le società libere da quelle fondate sull’arbitrio”.

lunedì 17 marzo 2025

"Kyiv. La fortezza sopra l'abisso", di Elena Kostioukovitch

Qui di seguito, la mia recensione di "Kyiv. La fortezza sopra l'abisso", di Elena Kostioukovitch (La Nave di Teseo) pubblicata il seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 12 marzo, con il titolo "Kyiv come una fortezza ma anche come un teatro. Per vite grandi e tragiche".

“Piani terribili. L’Europa sa bene di non avere garanzia reale contro questa sciagura. In realtà, l’Ucraina svolge il ruolo di fortezza per l’Europa, elevandosi al di sopra dell’abisso di menzogne e cinismo. L’altezza di Kyiv è anche un’altezza morale”.

Dopo aver indagato, con efficacia e non senza raccapriccio, “Nella mente di Putin” (La Nave di Teseo 2022) Elena Kostioukovitch racconta ora la sua città e la sua patria, in un libro di grande forza d’animo e di notevole valore storico, letterario e umano.

“Kyiv. La fortezza sopra l’abisso” è un piccolo gioiello di saggistica narrativa, un mix di autobiografia e micro-biografie, un pamphlet doloroso ma soprattutto un vibrante appello in difesa della frontiera orientale della civiltà europea.

Nel ricostruire la storia recente della capitale ucraina, l’autrice narra le vicende di alcune donne in fuga: un’anonima madre ferita, un’imperatrice, la sua bisnonna, sè stessa. Queste singole vite hanno per teatro grande e tragico la città di Kyiv, la sua architettura, le sue trasformazioni, le sue immani sciagure.

“Un’altra donna corre lungo via Shota Rustaveli, trascinando per mano la figlia. E’ la tarda estate del 1941 (…) Questa donna che corre, Raya, non cadrà all’ingresso del civico 23 e non morirà. Si salverà grazie alla propria determinazione e dieci anni dopo andrà in vacanza sul mar Nero con la figlia, già adolescente. La figlia è Vera, mia madre”.

Fra i molti protagonisti, largo spazio è dedicato alla figura di Mikhail Bulgakov, che – terrorizzato delle famigerate “perquisizioni” della polizia sovietica - lascerà Kyiv per trasferirsi a Mosca nel 1918. Bulgakov è figura controversa, avverte l’autrice: un grande scrittore che però sceglie, come Gogol nel secolo precedente, la lingua russa come modalità espressiva. Egli quindi resiste come può alla dittatura sovietica, ma non riconosce, nell’uso imposto di questa lingua, lo strumento coercitivo utilizzato per secoli dai moscoviti, ai fini della russificazione forzata dei popoli soggiogati.

“Anche nella mia famiglia – spiega Kostioukovitch – la ricca lingua russa è stata divinizzata e protetta in modo analogo. Viceversa, nella nostra cerchia nessuno si preoccupava, appunto, dell’ucraino. Oggi va detto che si trattava di una vera e propria cecità culturale. Ho vissuto un’epifania, ho cominciato a capire cosa sia in verità l’Ucraina soltanto nel 2014 e, ancora più tragicamente, nel 2022”.

Grandi protagonisti di “Kyiv” sono, inutile dirlo, Zelensky e gli eroici manifestanti di Maidan. Del presidente è minuziosamente descritta la straordinaria capacità comunicativa e anche psicologica, in particolare nelle prime fasi della guerra, quando al buio, sotto le bombe, con il viso illuminato solo dalla luce bluastra del telefonino, riesce a infondere calma e coraggio alla sua gente. Zelensky è un innovatore in politica e nel linguaggio, il più capace nel rappresentare la nuova Ucraina che resiste, nata nei mesi di lotta in piazza Indipendenza.

I giorni di Maidan sono narrati con forte partecipazione emotiva: alla violenza del governo filorusso si contrappone una piazza giovane, coraggiosa, piena di empatia e fantasia creativa. Lo scontro è durissimo, prolungato nel tempo, con molti morti, fino alla capitolazione e fuga a Mosca del corrotto Janukovych, il 23 febbraio del 2014.

Kostioukovich racconta del bisnonno fatto fucilare da Stalin con accuse infamanti, e dell’abominevole massacro nelle fosse comuni di Babyn Yar, nei dintorni della città, dove almeno centomila esseri umani furono trucidati con un colpo alla nuca dai nazisti, nella più grande strage di ebrei della Shoah svoltasi fuori dai campi di sterminio. Il libro si chiude con parole di speranza: “In nessun caso la ‘prigione dei popoli’ (espressione di Lenin) sarà ripristinata di nuovo, nonostante l’aggressione di Putin e le idee di tutti i politologi che per qualche motivo lo ascoltano. Né l’Urss né l’impero russo possono essere ripristinati (…) Nessuno toglierà all’Ucraina le ‘gesta’ che è già riuscita a compiere”.