Claus von Stauffenberg non era affatto un progressista, e forse neanche un democratico.
Era un ufficiale della Wehrmacht, tipicamente di origine aristocratica, nel
solco della grande tradizione prussiana e guglielmina. Ai suoi occhi, la
Repubblica di Weimar non fu altro che un periodo di debolezza e disordine. Guardava
con distacco al nazismo. Le offensive in Polonia e in Francia gli parvero un
riscatto dovuto, rispetto all’iniquo trattato di Versailles. Solo più tardi,
di fronte agli orrori, agli eccidi, ai crimini del nazismo e alle follie di
Hitler, l’ufficiale si rese conto di come il suo “dovere” fosse ben altro. (...)
La fortuna non premia i congiurati. L’ufficiale riesce a innescare una
sola delle due cariche esplosive; la riunione si tiene non nel bunker ma in una
baita in legno; la borsa con l’esplosivo viene casualmente spostata; quattro
uomini muoiono nell’attentato, ma Hitler è solo leggermente ferito; a Berlino, l’operazione
Valchiria parte con un leggero ritardo, sufficiente però a far sapere che il
Fuhrer è vivo.
L’estremo tentativo del popolo tedesco di scindere il proprio destino
da quello, ormai segnato, del regime nazista, è fallito. Stauffenberg non
salverà l’onore della Germania, ma solo il proprio, insieme a quello di
migliaia di oppositori che saranno fucilati nei mesi successivi. Se l’attentato
fosse riuscito, ci ricorda Peter Stenbach, 20 milioni di vite umane sarebbero
state risparmiate.
A questo link, la mia recensione completa di "L'uomo che voleva uccidere Hitler", di Peter Steinbach, pubblicata su Il Foglio di mercoledì 25 ottobre.
http://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2017/11/06/news/l-uomo-che-voleva-uccidere-hitler-161612/
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