Nel decimo anniversario della morte di Piergiorgio Welby, ripubblico qui di seguito la mia recensione di “Ocean Terminal” (2010) il suo romanzo postumo, che nello stile ricorda Bukowski e Kafka. Il libro è stato recentemente riproposto dall'editore Castelvecchi. Accettate il mio consiglio: compratelo, leggetelo.
C’è molto Bukowski nel romanzo postumo di Piergiorgio Welby,
il malato terminale che appellandosi al Presidente Napolitano e scrivendo
“Lasciatemi morire”, sconvolse i sonni di politici clericali e alti prelati
nell'autunno del 2006.
“Ocean Terminal” (170 pagine, 17,50 euro, Castelvecchi Editore)
è un romanzo convulso, allucinato, a tratti schizoide. Il racconto è
frammentario e procede a strappi. La prosa è cruda, iper-realistica, spesso
violenta e oscena. Non mancano però pagine tenui, riflessive, in cui l’autore
abbandona improvvisamente ogni aggressività per scivolare nei ricordi dolci dell’infanzia.
Il labile confine fra prosa e poesia spesso è infranto di slancio: interi
paragrafi sembrano scritti in versi, rivelando una tecnica di straordinaria
potenza narrativa. Le parole che chiudono il romanzo (“Anche il dolore è muto questa notte”) sarebbero state un titolo altrettanto
perfetto; e sono un endecasillabo.
Welby ci rimanda dunque a Bukowski – che infatti nel libro è
citato quattro volte – ma ancor più a Kafka, in particolare a “La metamorfosi”,
cui l’autore dedica un’amara riflessione: “Io
sono sempre io e non avrò mai la fortuna di risvegliarmi scarafaggio, verme,
grillo, ragno...”. Anche l’allucinato racconto iniziale (una specie di introduzione
a sé stante) e molti altri spezzoni del romanzo sono di tipica impronta
kafkiana, nel filone classico della letteratura fantastica.
“Ocean Terminal” è un libro autobiografico, ricco di riferimenti
filosofici, artistici, religiosi, letterari, cinematografici, a testimonianza della
vastissima curiosità intellettuale dell’autore e della sua cultura
enciclopedica. Grandi protagonisti sono la droga, il sesso e naturalmente la
malattia. La sofferenza fisica di Welby è all'origine del malessere psicologico
ed esistenziale che lo porterà a sprofondare negli abissi della
tossicodipendenza. Le corsie d’ospedale, le medicine, le iniezioni, le infermiere
sono lo scenario della vita quotidiana. Il bisogno di amare è bruciante e carnale,
il desiderio si manifesta in un senso del possesso irrefrenabile e spasmodico.
Alla fine il romanzo resta incompiuto: proprio
l’impossibilità di continuare a scrivere, agli inizi del 2006, indurrà Welby alla
richiesta di una “morte opportuna”, che otterrà il 20 dicembre grazie all'aiuto
di Marco Pannella e di un medico coraggioso, Mario Riccio. Tuttavia il libro
assolve alla sua missione, rivelandoci uno scrittore e poeta di eccezionale
talento. Ringraziamo dunque ancora una volta Piero Welby: dicendo “amo la vita,
voglio l’eutanasia”, egli ha prometeicamente strappato agli Dèi libertà e
dignità per gli esseri umani; scrivendo questo romanzo, ha confermato il proprio
valore letterario. Era un vero uomo, scriveva da Dio.
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