Qui di seguito, la mia recensione del libro "Gesù. Il film di una vita", di Carl Theodor Dreyer (Iperborea) apparsa ieri a pagina 2 del quotidiano Il Foglio.
Già
nel corso degli anni Trenta, il grande regista danese Carl Theodor Dreyer
concepisce l’idea di un film sulla figura di Gesù. Il progetto si rafforza nel
corso dell’occupazione nazista della Danimarca, con la suggestiva equiparazione
fra gli antichi dominatori romani e i malvagi invasori del presente.
Dreyer
scrive una minuziosa sceneggiatura - poi più volte rimaneggiata - e dopo la
guerra firma un contratto con il produttore americano Blevins Davis, un personaggio
inaffidabile. Il regista è succube dell’impresario, la sceneggiatura resta sulla
carta. Dopo sedici anni di continui rinvii, finalmente nel 1967 Dreyer si
svincola e accetta l’offerta della Rai di produrre il film per la televisione
italiana. Di nuovo egli lavora al testo, ma l’anno dopo muore senza essere
riuscito a realizzare il suo progetto più ambizioso.
Ora
Iperborea pubblica la sceneggiatura nella versione “lunga” del 1950 (424
pagine, 19,50 euro): un libro imperdibile per gli amanti del cinema, ricco di indicazioni
registiche, descrizioni sceniche, dettami su stacchi, primi piani e dissolvenze.
Paragonato alle più celebri versioni di Rice-Webber, Zeffirelli e Pasolini,
quello di Dreyer è soprattutto un Gesù ebreo, cioè fortemente contestualizzato
nell’ebraismo del suo tempo, rispetto al quale mostra una sorta di nervosa
insofferenza e un’irriducibile alterità. Il Gesù di Dreyer è provocatorio e quasi
magico nel distribuire i miracoli, con grande entusiasmo del popolo e sgomento
dei farisei, sconcertati dalla enigmatica ambivalenza delle sue risposte. Quando
è contestato sul piano dottrinario e teologico, i toni non sono mai aspri. Le
reazioni dei dottori della legge sono scettiche, increduli, solo raramente scandalizzate.
Gli ebrei riconoscono in Gesù uno di loro, che agisce per il bene; i cospiratori
politici invece sono irritati e delusi, perché egli non guiderà alcuna rivolta
contro Roma.
In
più di una circostanza, Dreyer si prende delle importanti licenze
drammaturgiche. La figura di Maria compare una sola volta, in sinagoga. Gesù ha
fatto un miracolo di sabato, i fratelli lo rimproverano di dare scandalo e di
gettare il discredito sulla famiglia. Maria non comparirà più, nemmeno durante
la crocefissione. La stessa via crucis è “filmata” in solitudine, con poche
eccezioni. La sceneggiatura si conclude con la morte del condannato: Dreyer non
accenna neppure marginalmente a un’ipotesi di resurrezione. Inoltre, tutti i
miracoli di Gesù, minuziosamente descritti, sono accompagnati da incisi di carattere
medico e scientifico (o pseudo-scientifico) volti a fornire una spiegazione
razionalistica e positivistica dei fatti narrati: una scelta che obiettivamente
indebolisce la sceneggiatura e costituisce l’elemento più discutibile dell’opera.
Obiettivo
dichiarato dell’autore è di scagionare gli ebrei da qualsiasi responsabilità,
diretta o indiretta, nella messa a morte di Gesù, che invece deve essere
interamente intestata ai romani (esplicitamente paragonati, come abbiamo detto,
ai nazisti).
“Pilato:
E’ a causa di questo…. (studia il papiro che ha in mano e continua)
…Gesù di Nazareth che vi ho chiamati. Forse voi crederete che io non sappia ciò
che accade in questa città, ma state pur certi che non è così. Gli uomini al
mio servizio non sono né ciechi né sordi. Questo… (deve consultare ancora
una volta il papiro prima di continuare) … Gesù di Nazareth è stato
sorvegliato accuratamente per mesi. Niente mi è ignoto e io sono informato… di
tutto (con enfasi). Quest’uomo deve essere eliminato prima della festività;
non si può attendere oltre. Non intendo correre rischi. Capito?”.