Qui di seguito, la mia recensione di "L'avventura dl politico", di Julien Freund (Edizioni Il Foglio) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri, mercoledì 9 febbraio.
“In
politica si deve sempre pensare al peggio, per impedire che accada”. Nel
centenario della nascita, esce per la prima volta in Italia questa bella
intervista al pensatore francese Julien Freund (1921-1993) sociologo della
politica di grande originalità e spessore, poco noto da noi per via di presunte
simpatie di estrema destra - in realtà mai nutrite.
Condotta
da Charles Blanchet, sacerdote e filosofo, studioso del personalismo cristiano,
l’intervista apparve in Francia nel 1991, due anni prima della scomparsa di
Freund, e ne rappresenta una sorta di biografia intellettuale e testamento
spirituale.
Giovanissimo,
Freund partecipa alla resistenza francese, e ha modo di toccare con mano i
comportamenti orribili dei comunisti staliniani; poi anche i socialisti lo
deludono, così decide di abbandonare la militanza e di dedicarsi esclusivamente
alla sua vocazione di teorico e studioso delle idee.
Riconoscendone
il non comune valore, Raymond Aron accetta di dirigere la sua tesi di laurea,
che sarà poi pubblicata con il titolo “L’essenza del politico” (1965).
Seguiranno Sociologia del conflitto” (1983) e La decadenza (1984). Con le
stesso Aron, oltre che con Carl Schmitt (“un personaggio degno di Dostoevskij”)
lo studioso svilupperà nel corso della vita una notevole sintonia intellettuale
e un proficuo dialogo.
Grande
maestro di realismo, per Freund la politica è prima di ogni altra cosa “l’individuazione
di un nemico”. Oltre al politico, egli individua altre cinque “essenze”, cioè campi
primari dell’agire umano, ai quali non ci si può sottrarre nel corso della
storia: sono i fattori economico, religioso, scientifico, etico ed estetico. Su
ognuno di questi aspetti, il sociologo si intrattiene diffusamente con il suo
raffinato interlocutore, spaziando da Kant a Weber, dalla scienza alla
metafisica.
Freund
deve ad Aristotele la consapevolezza che i contrari sono insopprimibili, perciò
respinge la dialettica hegeliana, che prevede la ricomposizione e il
superamento del conflitto. “La società non si sviluppa linearmente, in funzione
di un programma oppure in condizioni completamente logiche”.
Ma avverte: “Sarebbe un errore grossolano interpretare la mia critica al razionalismo come una riprovazione della ragione e un elogio dell’irrazionale. La ragione è una facoltà costitutiva dell’essere umano; tuttavia sarebbe poco ragionevole ridurre alla ragione l’essere, la vita, la storia. Bisogna al contrario riconoscere la parte che giocano l’imprevedibile e il tumultuoso, gli umori e le passioni, per poter ammirare in tutta la sua ricchezza l’avventura umana”.