Scritto
nel ’99, “Come tessere di un domino” è il romanzo storico che più ha
contribuito a fare di Zigmunds Skujins, nato a Riga nel 1923, un grande punto
di riferimento intellettuale e morale nella Lettonia di oggi. (...)
Il libro
corre lungo un doppio binario, uno settecentesco l’altro novecentesco, a
capitoli alterni. Indietro nel tempo, un’aristocratica tedesco-baltica, giovane
vedova, vaga sulle tracce del marito dato per morto in battaglia, poiché
Cagliostro in persona le ha rivelato che in realtà egli vive. (...)
Nell’altro
racconto, fortemente autobiografico, tutte le tragedie del ‘900 sono filtrate attraverso
lo sguardo ingenuo e incredulo di un adolescente, che assiste sgomento
all’avanzare dell’irrazionalità e della follia. (...)
Come è stato scritto, c’è molto Italo Calvino nei personaggi di
Skujins: c’è chi torna dimezzato dalla guerra, e ci sono destini che si
incrociano stranamente, nell'antica magione alla periferia di Riga. Come due
parallele che si incontrano solo all'infinito, anche le due parti del romanzo finiscono
per confluire in un finale a sorpresa delicato e commovente. La doppia
ambientazione si risolve in una bizzarra saga familiare, e anche la tragedia ebraica
avrà un imprevisto supplemento di rappresentazione, sospeso fra giustizia e
vendetta. (...)
A questo link, la mia recensione completa di "Come tessere di un domino", di Zigmunds Skujins (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 20 dicembre.
https://www.ilfoglio.it/il-foglio-internazionale/2017/12/20/news/come-tessere-di-un-domino-zigmunds-skujins-una-fogliata-di-libri--169803/
giovedì 21 dicembre 2017
sabato 16 dicembre 2017
"Il personalismo musulmano", di Mohammed Lahbabi
Esiste un personalismo musulmano? Esiste cioè, nella teologia
islamica, un elemento costitutivo e fondante, non secondario, che tuteli in
modo forte e decisivo non solo la libertà dell’individuo, ma anche l’autonomia
della persona – di ogni persona, uomo o donna, ricco o schiavo – la sua
complessità, in rapporto agli altri esseri umani, alla società, alle
istituzioni pubbliche, alla religione stessa…? Il
teologo musulmano marocchino Mohammed Aziz Lahbabi (1923-1993) contemporaneo dei
“nostri” Mounier, Lacroix, Maritain, fondatori del personalismo cristiano, sostiene
di sì. (...)
L’autore stesso riconosce che “caratterizza fortemente l’Islam una
certa tendenza al totalitarismo, all’unicità (…) Nell’Islam non c’è nessun
clero, né la distinzione tra religioso e laico: l’Islam è totalitario, è cioè
una religione sacrale nel senso che è indivisibilmente fede, pratica religiosa
e comunità temporale”. Di conseguenza, rispetto allo Stato moderno, Lahbabi
dichiara di prediligere nettamente il Califfato. Lo Stato infatti spersonalizza
i popoli e distrugge l’autonomia degli individui, “al contrario, il Califfo non
è investito da alcuna forza particolare: egli è il luogotenente di Dio, tanto
che si sottomette alla Legge del Corano e della Sunna”.(...)
Quelli che sognano una modernizzazione dell’Islam,
possono continuare ad aspettare.
A questo link, la recensione completa de "Il personalismo musulmano", di Mohammed Lahbabi (Jaca Book) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 29 novembre.
https://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2017/12/16/news/il-personalismo-musulmano-aziz-lahbabi-una-fogliata-di-libri-169217/
domenica 10 dicembre 2017
“L’insulto” è un film di buoni sentimenti. Antisemiti.
“L’insulto”, nelle sale in questi giorni, è un buon film, ben diretto
e ben recitato, pieno di buoni sentimenti, tranne uno: l’odio verso gli ebrei.
Ambientato a Beirut, è incentrato su un processo che vede contrapposti
un arabo cristiano e un palestinese. Da un banale diverbio nasce un insulto:
“Sei un cane!”. Basterebbe chiedere scusa, invece arriva anche un pugno. Si va
in tribunale, poi ancora in appello. Perché i due protagonisti non riescono a rappacificarsi,
e neppure a comunicare? Perché entrambi hanno sofferto troppo – è la tesi del
film - per i torti e le ingiustizie patite. Il dramma, in un crescendo
incalzante, rivela fatti ed episodi storici che riemergono dal lontano passato.
Si scoprirà che nel ‘70, in Giordania, il palestinese dovette
assistere alla brutalità con la quale l’esercito regolare liquidò i miliziani
dell’Olp, con migliaia di vittime anche fra i civili. E che pochi anni più tardi,
nel 1976, il cristiano maronita era un bambino quando fu fatta la pulizia
etnica del suo villaggio, all’inizio della lunga e sanguinosa guerra civile
libanese.
Per questo i due protagonisti (il primo sembra un leghista cattivo, il
secondo un immigrato buono) tuttora si odiano: fanno fatica a perdonare e a
comprendere appieno il dolore dell’altro. A ben vedere, in fondo all’animo, sono
tutti buoni. Tutti, tranne gli ebrei.
Il film inneggia alla convivenza pacifica, alla comprensione
reciproca, al dialogo, alla solidarietà umana: ma solo fra arabi. Tutto questo,
per gli ebrei non vale. Quando l’avvocato cristiano vuole denigrare i
palestinesi, dice: “Sono carnefici che vogliono atteggiarsi a vittime, e sappiamo bene da chi hanno imparato…!”.
Quando scoppiano disordini di piazza, si vede un manifesto in cui il querelante
cristiano è ritratto con cernecchi, cappello e cappotto neri. Questa è l’ingiuria:
ebreo. Quando in aula si alza il tumulto, qualcuno dal pubblico grida all’avvocato.
“Cane sionista!” e solo allora lui perde le staffe e si avventa contro l’insultatore,
trattenuto a stento da poliziotti e amici. E per colmo dello sfregio, sull’officina
del protagonista arabo cristiano qualcuno traccia, di notte, la Stella di
Davide.
L’elenco sarebbe lungo, ma fermiamoci qui. Solo una domanda: tutte le
belle parole del finale, l’invito a capirsi, a condividere la sofferenza
altrui, al dialogo, alla comprensione, alla capacità di chiedere scusa e di
perdonare, tutto questo…. per gli ebrei non vale?
Questo film arabo-pacifista rievoca i bei tempi andati, il Libano di
una volta, la “Svizzera del Medio Oriente” pluralista e neutrale. Ma non dicendo
tutta la verità, in realtà mente. Piacerà molto in Europa.
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