giovedì 22 giugno 2023

Il caso Morel, di Rubem Fonseca (Fazi)

Qui di seguito, la mia recensione di Il caso Morel, di Rubem Fonseca (Fazi Editore) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 21 giugno. 

“Mi serve il suo aiuto – Mi dica che posso fare – Devo scrivere un libro. Matos non gliel’ha detto? – Mi ha detto che voleva parlare con uno scrittore – Mi serve aiuto per scriverlo”.

Rubem Fonseca (1925-2020) fa ricorso al classico espediente del “romanzo nel romanzo”, in questo suo noir di esordio del 1973, trovando subito grande successo e popolarità in Brasile e all’estero. Ora Il caso Morel viene pubblicato per la prima volta in Italia, anche se certo non susciterà lo scandalo di cinquant’anni fa.

Fonseca fu effettivamente un ex commissario di Polizia che divenne scrittore, esattamente come il suo personaggio Vivela, che incontra in carcere Paul Morel, artista maledetto e trasgressivo, accusato di aver massacrato di botte una sua giovane amante.

A mano a mano che Morel passa a Vivela le sue pagine, ne emerge un mondo torbido, popolato da prostitute disperate, ricchi depravati, artistoidi frustrati, maniaci sessuali. Morel racconta la sua versione dei fatti, fino al ritrovamento del cadavere della ragazza. Ma chi l’ha uccisa? La polizia sembra non avere dubbi, Vivela non è convinto e continua a indagare. Al momento del delitto, Morel convive con tre donne e un bambino in una sorta di strampalata “famiglia” poligamica e lussuriosa: una prostituta-madre, un’aspirante artista e una contestatrice ribelle di origini borghesi. Il sesso domina su tutto il romanzo, con descrizioni forti e crude.

“Come siete finite qui? – Abbiamo sentito che stasera ci sarebbe stato un casino da urlo e siamo venute. Davvero non ti va di fare niente? – Nel frattempo Guilherme si scopava Monica. Sono rimasto un po’ a guardarli e non mi è piaciuto affatto. Decisamente non ero un voyeur. Che ne diresti di un sessantanove verticale? ha detto Diana. Oggi no, sono a pezzi, le ho risposto”.

Quando Morel esaurisce il suo racconto, il romanzo si complica. Ai personaggi narrati nel manoscritto subentrano quelli “veri”, ognuno con un nome diverso e con una diversa versione dei fatti. Vivela procede a tentoni, in una Rio ricca e degradata,  popolata da personaggi ambigui. Fino alle ultime pagine, protagonista e lettori brancolano nel buio.

“Al contrario dell’opinione diffusa, pensare, guardare, agire in modo intensamente e costantemente erotico non provoca un calo dell’impulso sessuale, né rende il sesso qualcosa di molesto, faticoso o stomachevole – dice Gomes – Più mangiamo, più mangiare ci piace e vogliamo farlo. Lo stesso accade con il sesso, non si arriva mai a un punto di saturazione”.

venerdì 9 giugno 2023

In alto, di Thomas Bernhard (Guanda)

Qui di seguito, la mia recensione di "In alto", di Thomas Bernhard (Guanda) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri. 

“Nella sala delle udienze mi sento soffocare, esco, corro per le strade, il mio articolo si fa sempre più conciso, un buon articolo su una storia sporca, sono incapace di salutare, sono incapace di tutto, dopo aver scritto il mio articolo un cieco furore mi spinge a correre per ore in città”.

Thomas Bernhard ha soli 28 anni, e in effetti collabora proprio come cronista giudiziario con un giornale di Salisburgo, quando scrive questo “In alto” (1959) romanzo giovanile che però vedrà la luce solo trent’anni più tardi, alla morte dell’autore. Il volume presenta un sottotitolo che è tutto un programma, “Tentativo di salvezza, nonsenso”: a posteriori, sembra il manifesto letterario dell’introverso e scontroso scrittore austriaco. L’intera opera bernhardiana, infatti, è caratterizzata da una congenita aporìa. I suoi romanzi si presentano come tragedie annunciate, condanne senza appello, prigioni senza via di fuga. Qualsiasi tentativo di salvezza appare insensato e vano.

“In alto” è un romanzo senza trama, dal ritmo sincopato e rapsodico, che anticipa i temi ricorrenti di Bernhard: l’isolamento claustrofobico, la nevrosi, l’incapacità di comunicare, la predestinazione alla sconfitta, il suicidio. L’Io Monologante di Bernhard qui si muove a tentoni, annaspa, si impunta, inveisce, ma il suo malessere interiore è insormontabile.

“Pensieri si addensano nella mia mente e rifiutano di essere registrati, quanto vale un pensiero registrato nel mio cervello? Emergono, affondano”.

Bernhard ricorre a una prosa allucinata, mediante un uso compulsivo della virgola, degli stacchi, degli incisi, per rendere efficacemente il processo mentale erratico e disturbato di un giovane uomo privo di equilibrio psichico. Anche i vari personaggi che costellano la narrazione, non sono in realtà che interlocutori occasionali, espedienti narrativi che consentono di descrivere, per contrasto, la personalità solipsista del protagonista: “Ubbidire con la massa, distruggere con la massa, annientare con la massa, colare a picco con la massa”.

Non mancano, in questo romanzo giovanile, espliciti riferimenti all’universo kafkiano: “Anch’io dunque devo comparire davanti a un tribunale, devo comparire davanti a un’intera corte di giustizia, mi cercherò il tribunale più severo che esiste, un tribunale che mi distrugga finché non resti più nulla di me, il tribunale emetterà il giudizio che mi spetta, si riunirà a porte chiuse e mi assegnerà a un porcile, un porcile per uomini, destinato a creature della mia specie”.