Qui di seguito, la mia recensione di "Alzarsi", di Helga Schubert (Fazi Ed.) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.
“Sono
figlia della guerra, figlia profuga, figlia della Germania divisa. Ancora oggi,
trent’anni dopo il 9 novembre 1989, dallo scompartimento del treno vedo il
confine di allora in tutta la sua concretezza, nella striscia della morte i
cespugli e gli alberi sono ancora più giovani, piantati soltanto DOPO. Il 9
novembre 1989 ero alle soglie dei cinquanta e non avevo ancora mai espresso un
voto libero. Potrei raccontare quella giornata come testimone davanti a un
tribunale: che cosa ho visto e sentito e pensato. Prima e anche nel tempo che è
seguito. Ora per questo non esiste più un tribunale terreno: Tranne l’omicidio,
tutto è caduto in prescrizione”.
Nata
a Berlino nel 1940, orfana di padre a due anni, profuga con la madre a quattro,
Helga Schubert narra con prosa malinconica e un uso personalissimo della
punteggiatura, la propria autobiografia di scrittrice nel mondo opprimente e
invasivo della DDR.
Schubert
racconta dei permessi di recarsi all’estero, e dei suoi ostinati e puntuali
rientri, “di là dalla cintura minata”. Nell’80 riceve nella Repubblica federale
il premio Ingeborg Bachmann, nell’83 il premio Fallada, prestigiosi
riconoscimenti che è costretta a rifiutare. Legge i rapporti che i solerti spioni
governativi redigevano sul suo conto. Dopo
la caduta del Muro, il funzionario incaricato per quattordici anni di seguire
il suo dossier, le chiede scusa, dicendo di provare vergogna e rimorso. Ma afferma
di non avere mai temuto linciaggi o ritorsioni, perché aveva capito che le
persone sorvegliate non volevano altra violenza, solo un ordine politico e
sociale diverso.
“Il
Muro non c’è più. Il Muro non c’è più, era scritto sul muro di sbarramento.
Come si fa, una cosa del genere, anche solo a pensarla”.
Accanto
a queste ricostruzioni, riaffiorano i ricordi dolci delle trasferte in campagna
della nonna, ma soprattutto gli scontri con la personalità dura e anaffettiva
della madre, la vera figura dominante del libro, tratteggiata con sentimenti
contrastanti di affetto e rancore.
“Ho
compiuto tre imprese eroiche che ti riguardano. La prima: non ti ho abortito,
anche se tuo padre voleva che lo facessi (…) La seconda: quando siamo fuggite
dalla Pomerania a Greifswald, ti ho spinta in una carrozzina a tre ruote fino
allo sfinimento. E la terza: quando i russi sono entrati a Greifswald, non ti
ho avvelenato né sparato. Tuo nonno pretendeva da me che mi avvelenassi o mi
sparassi (…) Allora dovrei prima uccidere mia figlia, ho detto io a tuo nonno,
ma non posso farlo. Quindi ti ho lasciata vivere”.