sabato 29 ottobre 2016

Contro le donne

E’ un’autentica galleria degli orrori il libro di Paolo Ercolani dedicato al “più antico pregiudizio del mondo”. (...) Nel finale, questa bella antologia risulta in parte compromessa dagli schemi ideologici e luoghi comuni dell’autore, che lancia invettive poco pertinenti contro il capitalismo, il “Dio mercato” e il “sistema tecno-finanziario”. Insomma, anche per Ercolani è tutta colpa del liberismo. Peccato.

A questo link, la mia recensione, pubblicata su Il Foglio di oggi.
http://www.ilfoglio.it/libri/2016/10/28/contro-le-donne___1-vr-150097-rubriche_c387.htm

giovedì 27 ottobre 2016

Bersani uomo mite, triste e perdente

Pierluigi Bersani insiste nel vestire panni che non sono i suoi.
L’altro giorno, per attaccare un provvedimento del governo sulla sanatoria del contante, lo ha chiamato “la Norma Corona”, in riferimento al denaro liquido di cui è stato trovato in possesso il famigerato fotografo-ricattatore.
Renzi ha restituito con gli interessi e l’ha giudicata “una definizione da esperto di birra”, giocando sul duplice significato del nome, o forse rievocando una celebre foto del 2012, che ritraeva Bersani in solitudine davanti a un boccale di birra, mentre limava il discorso per l’Assemblea nazionale del Pd.
Certo, il Presidente del Consiglio non dovrebbe usare certi toni, come “Fassina chi?” verso un suo vice-ministro o “Brrr che paura” di fronte a un ventilato sciopero della magistratura. Sono i ben noti limiti del personaggio, che suscitano – a volte con ragione, a volte no – le ire sdegnate degli avversari. Molti sostengono che “la politica di Renzi è sbagliata, ma lui è solo abile nel comunicare”. A me, francamente, pare il contrario.
Tornando a Bersani, e al gioco al massacro della minoranza Pd, dispiace che un uomo dal tratto sobrio e mite debba assumere atteggiamenti così stonati, così palesemente in contrasto con la sua natura e il suo carattere. E non è la prima volta che si auto-impone queste forzature: già alle politiche del 2013, venne la promessa di “smacchiare il giaguaro”. Non suonava un po’ stridente e vana, questa uscita, in bocca a un uomo indelebilmente marchiato da bonomia padana? Sappiamo bene come è andata a finire.
Bersani non si accorge, quando assume questi atteggiamenti non suoi, di non essere credibile?
Quanta “grinta” fuori posto, da parte di un uomo che si è fatto umiliare davanti all'Italia intera, in diretta streaming, dalla  grande intellettuale e statista pentastellata Roberta Lombardi…
Bersani è sempre stato assai più e meglio un uomo di governo, che di partito. E’ stato il capace governatore di un’importante regione, poi il ministro alle Attività produttive che ha avuto il merito di lanciare una lunga “lenzuolata” di liberalizzazioni. E’ sempre stato un riformista, si è sempre opposto al massimalismo sindacale; invece ora si ritrova come compagna di corrente Susanna Camusso, che pur di sostenere il No si oppone persino allo scioglimento del Cnel.

Insomma, la sua mitezza risulta triste e la sua politica è perdente. Perché insiste?

martedì 25 ottobre 2016

Una corsia preferenziale per il governo. E con ciò...?

Fra le novità più interessanti introdotte dalla riforma costituzionale, vi è quella dei “Disegni di legge governativi a data certa”, che ha l’obiettivo di creare in Parlamento una sorta di “corsia preferenziale” per le proposte di legge del governo. Sono esclusi da questa norma i trattati internazionali e le leggi elettorali. (Questo rafforzamento è parallelo alla fissazione di criteri e limiti costituzionali assai più rigidi per il ricorso al decreto legge, di cui ho parlato in un post precedente).
Anche in questo caso i sostenitori del No gridano allo scandalo, ma è la solita messinscena degli indignati, il consueto gioco delle parti. Perché mai una norma che ragionevolmente velocizza il percorso di alcuni provvedimenti, che il Governo giudica essenziali, dovrebbe essere considerata una minaccia per la democrazia e l’equilibrio dei poteri? Il compito di ogni Parlamento è di analizzare, emendare e approvare, o eventualmente respingere, un progetto di legge. Non certo quello di impedirne l’esame. E il compito di ogni governo è di governare, con la dovuta efficienza.
Vediamo in dettaglio di che si tratta.
La riforma prevede che per alcune proposte di legge, giudicate “essenziali per l’attuazione del programma di governo”, quest’ultimo possa chiedere l’iscrizione con priorità all'ordine del giorno della Camera dei deputati, che dovrà esaminarlo e votarlo entro settanta giorni. Quando la richiesta del governo è depositata, la Camera ha cinque giorni per valutare se accettare questa richiesta o respingerla.
Se la Camera deciderà di accogliere la richiesta, essa è impegnata a esaminare e votare il provvedimento entro la “data certa” prevista. 
In situazioni particolari, è previsto un ulteriore allungamento dei termini, di altri quindici giorni, nel caso in cui la complessità della materia o esigenze specifiche della Commissione parlamentare competente, lo rendessero necessario. In totale 90 giorni, tre mesi di tempo, per arrivare al voto su un disegno di legge che legittimamente il governo considera importante per la realizzazione del suo programma riformatore.
E’ interessante notare che, rispetto alla proposta iniziale, è stata abolita la norma che prevedeva il “voto bloccato” (come esiste nel Parlamento francese) una sorta di ghigliottina che avrebbe permesso al Governo di chiudere la discussione al termine dei 70 giorni e di fare votare il testo, senza ulteriori modifiche. Questa norma avrebbe conferito più certezza al governo, ma avrebbe limitato le possibilità per il Parlamento di esaminare la proposta.
E allora, per favore, ancora una volta: il “rischio per la democrazia”… dove sarebbe?

sabato 22 ottobre 2016

Oggi è un buon giorno per gli amici di Israele

Ho scritto nei giorni scorsi di provare vergogna per l’astensione dell'Italia sulla mozione dell’Unesco che attacca Israele e cita i luoghi sacri ebraici (fra i quali il Muro del Pianto) solo con la denominazione araba, come se l’ebraismo non avesse diritto di culto e nemmeno di esistenza a Gerusalemme.
Ma ieri Matteo Renzi si è riscattato, con una dichiarazione molto forte e che io considero coraggiosa, in questo caso, perché avrebbe potuto tranquillamente fare finta di niente e nascondere la polvere sotto il tappeto, cavandosela con qualche frase di circostanza.
 Il voto di astensione infatti rappresenta una politica ponziopilatesca e cerchiobottista tipicamente italiana, da sempre mantenuta nelle sedi internazionali, là dove non ci si oppone mai a niente e non si vorrebbe dispiacere a nessuno.
Proprio per questo, sono particolarmente fiero di Renzi, che ha preteso e ottenuto un chiarimento dal ministro degli esteri. Riporto qui di seguito la risposta di Gentiloni alla domanda specifica del Corriere della Sera di oggi (pag. 3).
"La negazione da parte dell'Unesco del legame fra ebraismo e luoghi sacri di Gerusalemme è assurda, ma si ripete da anni. E' l'undicesima volta che l'Italia si astiene La discussione fra le diplomazie è se il modo migliore di contrastare queste assurdità sia di cercare di ridurre l'area di consenso a questa posizione, strada seguita sin qui dall'Italia, ovvero, come fanno Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, se sia meglio testimoniare la propria contrarietà. Ricordo che quest'anno per la prima volta i Paesi astenuti sono più di quelli a favore: 27 a 23, con 6 voti contrari. Rispetto alla precedente votazione una decina di paesi, fra i quali Francia e Svezia, sono passati dal sì all'astensione. Mi rendo conto che questo calcolo diplomatico non è stato capito e che la scelta di voto abbia ferito la sensibilità di molti. Ne ho parlato con Renzi, alla prossima occasione, in aprile, cambieremo il nostro atteggiamento".
Dunque il governo annuncia che, dopo 11 astensioni, la prossima volta l’Italia voterà contro queste mozioni odiose e strumentali in seno all’Unesco. Fra l’altro, è bene ricordare che questo istituto internazionale dovrebbe “tutelare il patrimonio artistico e culturale dell’umanità”, non servire da trampolino per il lancio di invettive di odio anti-ebraico.
Mi sembra un buon risultato. Bravo Renzi: non mi ero sbagliato a giudicarlo. Il mio apprezzamento va a lui personalmente e al suo fare politica a viso aperto. Renzi si è confermato in questa circostanza un autentico amico di Israele, certo assai più di una parte dello stesso partito di cui è segretario.



venerdì 21 ottobre 2016

Troppi decreti? Indignati, ma non troppo

Parliamo adesso di decreti legge. Questo istituto viene radicalmente modificato dalla riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre. (Viene introdotto anche il “disegno di legge governativo a data certa”, di cui scriverò la prossima volta).
Oggi i decreti legge sono emanati dal governo ed entrano immediatamente in vigore. Il Parlamento può convertirli in legge, con o senza modifiche, entro 60 giorni. Altrimenti decadono. La Costituzione dice solo che il governo può ricorrervi “in caso di straordinaria necessità e urgenza”, senza specificare. Una legge dell’88 aveva cercato di definire meglio questi criteri, ma trattandosi di una legge ordinaria, è rimasta lettera morta. I governi (tutti, di qualsiasi colore) hanno sempre largamente abusato del ricorso al decreto legge, per governare speditamente. E i partiti di opposizione (tutti, di qualsiasi colore) hanno sempre vibratamente protestato. Salvo fare il contrario, una volta al governo. Nella legislatura in corso, i decreti convertiti in legge sono stati il 30,5% delle leggi approvate; nella precedente legislatura, il 27%. Chiaro?
Veniamo al dunque. Ora i sostenitori del No, assai smemorati, parlano poco di questo argomento, perché non torna utile alla loro campagna demagogica.
La riforma costituzionale, infatti, mette un argine al ricorso ai decreti legge governativi, poiché i criteri limitativi (già indicati dalla legge ordinaria) vengono ora INSERITI NELLA COSTITUZIONE. In questo modo, la Corte costituzionale quando valuterà i ricorsi, potrà dichiarare inammissibile la legge per mancanza di requisiti. Oggi non può farlo, domani sì.
Dunque questa riforma limita gli abusi del governo e aumenta le garanzie costituzionali. Chiaro?
Inoltre, i decreti legge sono spesso provvedimenti “omnibus”, trenini a cui il parlamento non esita ad aggiungere qualche “vagone”, lungo il percorso di approvazione. Invece la riforma, recependo una sentenza del 2012, inserisce in Costituzione anche il criterio di omogeneità del testo.
Infine, nel caso in cui il Presidente della Repubblica decida di rinviare il decreto alla Camera, i termini si allungano da 60 a 90 giorni, per dare modo al Parlamento di recepire le obiezioni del Capo dello Stato. Un’ulteriore garanzia di equilibrio costituzionale fra governo, parlamento e Presidente della Repubblica.
Giorgio Napolitano ha raccontato, nei giorni scorsi, di avere passato nove anni al Quirinale a ricevere le delegazioni delle opposizioni, indignate contro l’abuso dei decreti legge governativi. Per questo, ha spiegato, voterà Sì: proprio per consentire al parlamento di legiferare in modo più degno e responsabile.

“NAPOLITANO HA DETTO CHE IL PARLAMENTO E’ INDEGNO…!!!”, ha subito starnazzato in Senato il leghista Calderoli, famigerato autore del Porcellum. Ma si può essere più scemi di così?

mercoledì 19 ottobre 2016

Poteri forti chi???

    I poteri forti, sostiene D’Alema, sono schierati dalla parte di Renzi.
    Intanto, il “nuovo” Corriere della Sera di Urbano Cairo è attraversato da una crescente ostilità nei confronti del governo. Non raggiungerà forse i livelli astutamente faziosi e cripto-grillini di La7, con ospiti fissi Scanzi e Travaglio, ma resta il fatto che alcuni fra i principali editorialisti del primo quotidiano italiano hanno annunciato che voteranno No.
    Niente di male, per carità.
    Del resto, già uno dei precedenti editori del Corriere, l’imprenditore Diego Della Valle, della cordata sconfitta da Cairo, sempre su La7 definì gentilmente Matteo Renzi “una sòla”. Così, alla romana.
    Ripetiamo: tutto è lecito.
    Ma i tempi (e lo stile) di Gianni Agnelli, il mitico “Avvocato”, sembrano assai lontani, se il suo altrettanto mitico ex braccio destro, Cesare Romiti, intervistato dallo stesso Corriere, dichiara che voterà No, contro la riforma e contro Renzi, in nome della stabilità, dell’Europa, del rigore e ovviamente della “credibilità internazionale”.
    Caspita che credibilità.
    La presa di posizione dell’ex amministratore delegato di Fiat ed Rcs è nulla, tuttavia, in confronto a quella dell’ex Presidente del Consiglio Mario Monti, che infrange a velocità supersonica il muro del ridicolo in un’intervista a tutta pagina sul Corriere di ieri.
    Monti candidamente dichiara di avere votato Sì alla riforma costituzionale al Senato, nell’agosto del 2014, “poi, in seconda e terza lettura, ero assente per impegni europei”. Dice proprio così, il senatore a vita: “impegni europei”. Più importanti di quelli italiani, per i quali è pagato? Più importanti della riforma della Costituzione?
    Non pago, Monti aggiunge che votò a favore perché “consideravo essenziale non indebolire la corsa di Renzi sulle riforme economiche” e perché “mi hanno sempre convinto la modifica del rapporto fra Stato e Regioni, l’abolizione del Cnel e la fine del bicameralismo perfetto”. Quanto al Senato, “sarebbe stato meglio abolirlo”.
    Ah però…! Tutto qui? No, c’è dell’altro.
    “Ci possono essere risparmi nel costo della politica in senso stretto” aggiunge Monti, che confessa in proposito di avere “riflettuto a lungo”.
    E cosa ne ha concluso, chiede l’incauto intervistatore? Allora Mario Monti dà il meglio di sé:
    “Che votare Sì significherebbe tenere gli italiani dipendenti dalla provvidenza dello Stato. Sarebbe un Sì a non mantenere con loro un rapporto da cittadini adulti o maturi nei confronti dello Stato”.
    Dietro insistenza dell’intervistatore, Monti arriva a riconoscere che “se prevarrà il Sì avremo una Costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre”.
    Insomma, questo Monti dev’essere un altro di quelli “basta-ricatti-politici-entriamo-nel-merito”.
    Del resto è in buona compagnia. Monti ha votato a favore della riforma come Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, che ospite di Lilli Gruber dichiara: “Io come parlamentare ho votato a favore, ma come cittadina sono orientata a votare No”. Si va beh…
    Insomma Corriere della Sera, grandi imprenditori, giustizialisti televisivi, Romiti, Monti, i “professionisti dell’antimafia”, la tv di Cairo… Senza contare le televisioni di Berlusconi, naturalmente: quelle del famoso “conflitto di interessi”, che ora torna comodo anche a D’Alema.
    Ma i poteri forti, non stavano con Renzi?

lunedì 17 ottobre 2016

Riforma + Italicum: facciamo due conti

Fra le tante balle spaziali propalate ad arte in questi giorni dai sostenitori del No, spicca quella secondo cui non sarebbe la riforma costituzionale, in sé, a comportare il “rischio autoritario”, bensì il combinato disposto fra questa riforma e la nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”.
Secondo questa vulgata, grazie al premio di maggioranza, il governo avrebbe il potere di scegliere il Presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e chissà cos’altro. Il mantra viene ripetuto ossessivamente dai presunti “esperti” di diritto e politica, che confidano nella scarsa conoscenza della materia da parte del pubblico. Eppure questa critica è semplicemente FALSA, perché la matematica non è un’opinione.
Bastano poche cifre.
Oggi la Costituzione prevede che, per eleggere il Presidente della Repubblica, serva - nei primi tre scrutini - la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori. La riforma non modifica questo punto. Pertanto servono oggi 671 voti su 1006 aventi diritto, domani - con la nuova normativa - 487 voti su 730 (630 deputati più “solo” 100 senatori).
Questo per i primi tre scrutini; ora veniamo al seguito.
Secondo le norme attuali, a partire dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta, viceversa la riforma prevede che per i tre scrutini successivi (quarto, quinto e sesto) sia necessaria la maggioranza più alta, dei tre quinti dell’assemblea – cioè 438 voti, con le nuove norme.
Dunque la riforma va nella direzione di una maggiore garanzia per le minoranze, rispetto a oggi.
Con il premio di maggioranza, i seggi attribuiti al governo alla Camera sarebbero 340; perciò la soglia dei due terzi (487) sarebbe in ogni caso irraggiungibile, per quella dei tre quinti (438) occorrerebbe che votassero con il governo 98 senatori su 100.
Quest’ultima ipotesi è del tutto inverosimile, non solo di fatto – le Regioni sono notoriamente di colore politico diverso – ma anche di diritto, poiché la riforma prevede che le regioni più popolose eleggano i senatori assegnandone una quota alle opposizioni.
C’è da aggiungere che, a partire dal settimo scrutinio, la riforma prevede che la maggioranza dei tre quinti sia da calcolare non più sul totale degli “aventi diritto”, bensì solo sui “votanti”. Poiché è da escludere che i l’opposizione non partecipi al voto solo per fare un piacere al governo, questa norma dev’essere intesa come l’indicazione di una possibile via d’ uscita, tramite un accordo almeno con una parte dell’opposizione, per superare un’eventuale situazione di stallo.
In nessun caso, quindi, la maggioranza di governo potrebbe eleggere, da sola, il Presidente della Repubblica. Lo stesso vale per l’elezione dei giudici costituzionali.
Con la riforma, i giudici non sarebbero più eletti a Camere riunite (come accade oggi) ma separatamente: tre dalla Camera e due dal Senato. Le maggioranze richieste sono quelle già indicate: due terzi per i primi tre scrutini, tre quinti nei successivi. Anche in questo caso, chi sostiene che alla Camera il governo potrebbe eleggere da solo i giudici costituzionali, dice il falso: la maggioranza dei tre quinti è di 378, mentre il premio previsto dall’Italicum è di 340 seggi.

Dunque la critica è “matematicamente” infondata. Chi la sostiene non sa contare, oppure mente sapendo di mentire.

giovedì 13 ottobre 2016

Contro la politicizzazione dell'arte

Dario Fo è morto e io leggo su facebook commenti che non mi piacciono affatto.
Dunque siamo a questo: tutti quelli che la pensano come Dario Fo, elogiano il grande artista, l'uomo di cultura, il fustigatore del potere eccetera; viceversa, tutti quelli che “non” la pensano come Dario Fo, si sentono autorizzati a dire che la sua comicità faceva schifo, che era un estremista e un gran coglione.
Ma se ci pensate bene, proprio la "politicizzazione" dell'arte e della cultura, è stato uno dei grandi frutti avvelenati del '68, cioè di quella mentalità che era tipica di Dario Fo. Invece, distinguere fra il Fo uomo di spettacolo e il “militante della cultura” che sparava cazzate a raffica, significa davvero prenderne le distanze.
Apprezzare Fo senza condividere le sue idee: questo è il mio modo di rifiutare la politicizzazione dell’arte, un’attitudine che ho sempre considerato sbagliata e pericolosa.
Aggiungo che Dario Fo ha potuto per tutta la vita esprimere la sua critica artistica e la sua opposizione politica al potere italiano. E’ stato cacciato dalla Rai in anni lontani, è vero, in un’epoca di ottuso conformismo. Ma poi è tornato alla grande. Ha avuto tutti, ma proprio tutti gli onori, malgrado le sue idee estremistiche, le sue teorie complottiste e cospirative, il suo elogio sperticato del comunismo - un’ideologia totalitaria che peraltro non gli avrebbe mai consentito di esprimersi.
Dario Fo ha speso un’intera vita contro l’Occidente capitalistico, che lo ha ripagato con il Premio Nobel.
Altro che repressione e censura, altro che emarginazione e sfruttamento: emarginati e sfruttati erano gli altri. Tu, caro Dario Fo, sei sempre stato un privilegiato. Un contestatore ricco e famoso. La tua compagna Franca Rame è stata anche parlamentare, senatrice dell’Italia dei Valori, salvo rapidamente dover ammettere che non serviva a nulla e che si sentiva inutile. Questi riconoscimenti e privilegi non dimostrano forse che le tue idee, ieri comuniste oggi grilline, che le tue analisi politiche sulla democrazia italiana e sul potere occulto, erano completamente sbagliate…?
Scrivere queste cose, in morte di Dario Fo, non deve sembrare fuori luogo. Tutt’altro. E’ invece un modo, secondo me doveroso, di onorare la sua scomparsa.
Salutiamo dunque Dario Fo civilmente, senza polemiche, malgrado il suo estremismo confusionario.

Un ultimo applauso, all’artista.

martedì 11 ottobre 2016

"Bandiere rosse, aquile nere", di Guido Cervo

La mie recensione di “Bandiere rosse, aquile nere”, di Guido Cervo (Piemme, 700 pagine, 22 euro) pubblicata su Il Foglio di oggi
Facendo uso di una prosa schiettamente neorealista, Guido Cervo racconta la grande tragedia della guerra civile italiana, dal 1939 alla Liberazione. (…) Cervo sottolinea di non aver voluto porsi, con questa opera, al servizio di particolari orientamenti politici o ideologici. “E’ il racconto delle vicende di singoli individui, al tempo stesso vittime ed eroi – e talora anche carnefici – nel contesto di una grande tragedia nazionale: un periodo in cui uomini e donne potevano compiere azioni e accettare di esporsi a rischi e sofferenze oggi nemmeno immaginabili”.

A questo link, la recensione completa:

http://www.ilfoglio.it/libri/2016/10/11/bandiere-rosse-aquile-nere___1-vr-148978-rubriche_c380.htm

lunedì 10 ottobre 2016

Perché i moderati devono votare Sì

Riflettiamo bene. Quali saranno gli effetti politici del referendum?
In caso di vittoria del Sì, la risposta è piuttosto semplice: ne uscirà rafforzato il governo Renzi, che condurrà in porto la legislatura fino alle elezioni del 2018. Forse ci sarà un rimpasto, con la sostituzione di alcuni ministri. Niente di più.
In caso di vittoria del No, invece, le cose sono molto più complicate.
La vecchia sinistra di Bersani e D’Alema, con Sinistra Italiana (ex SEL) potrà “gloriarsi” di avere fatto cadere un governo a guida PD, precipitando questo partito in una guerra fratricida. Sarebbe la miserabile soddisfazione del settarismo di sinistra, a vocazione minoritaria. Sai che figata.
Sul fronte opposto, anche in Forza Italia si coltivano grandi illusioni. Il tempo lavora a favore di Salvini e Meloni, che hanno la metà degli anni di Berlusconi. Costui è “sceso in campo” nel ’94, ha vinto le elezioni nel 2001 e nel 2008, sempre allo scopo dichiarato di unire e far vincere la grande coalizione dei MODERATI italiani. Tutti infatti hanno riconosciuto a Berlusconi il merito di aver “messo la museruola” a Bossi e di avere sdoganato Fini. Ma sempre da posizioni moderate, europeiste e di “buon governo”.
Chi può dire, oggi, di rappresentare queste posizioni, corrispondenti agli interessi e alle aspirazioni del ceto medio italiano? Salvini e Meloni, sicuramente no. Nell’area berlusconiana, questo obiettivo è stato oggetto dal tentativo di Stefano Parisi, ma la reazione veemente e la stroncatura da parte del gruppo dirigente di Forza Italia, fanno capire che l’operazione è già morta in partenza. Senza contare che, se mai Parisi vincesse la competizione in Forza Italia, né Salvini né la Meloni accetterebbero di accodarsi nel ruolo di semplici “comprimari”. Essere gregari di Berlusconi (e dei suoi miliardi) era un conto, esserlo di Parisi è tutt’altra cosa. Dunque i “berluscones” non si illudano: se mai vincesse il No, non saranno certo loro a beneficiarne.
Il vero trionfatore della vittoria del No sarebbe Beppe Grillo.
In questo caso, l’incubo di un governo a 5 Stelle si potrebbe materializzare come prospettiva imminente e concreta. Mancherebbe poco più di un anno.
Perché mai i moderati italiani dovrebbero favorire questa ipotesi?
Perché mai coloro che hanno più volte votato Berlusconi – secondo me, sbagliando - in quanto leader di un polo “liberale” e per il “buon governo”, dovrebbero ora volutamente infilare la testa nella ghigliottina, felici di farsi decapitare da un partito giacobino ed estremista, che promette un fisco ancora più poliziesco, il giustizialismo, l’uscita dell’Italia dall’Europa e dalla Nato…?

Contrariamente alle indicazioni di Berlusconi e di Forza Italia, i moderati e il ceto medio italiano devono difendere i loro interessi, votando Sì al referendum, risparmiando all’Italia pericolose avventure e dolorose disavventure.

domenica 9 ottobre 2016

D'Alema suona sempre due volte

Ricordate? Nel 1996 il centro-sinistra vince le elezioni e Prodi diventa capo del governo. D’Alema presiede la Commissione per le riforme istituzionali. Come nasce la commissione D’Alema? Intanto è “speciale”, bicamerale, in deroga all’articolo 138 della Costituzione, e si assume il compito di elaborare un testo di riforma "chiavi in mano". Una procedura discutibile, diversa da quella seguita per la riforma Boschi, che ha scelto invece la strada maestra del dibattito nelle sedi istituzionali appropriate - ma naturalmente oggi D’Alema accusa il governo Renzi di “forzare la mano al Parlamento”.
La Commissione D’Alema avrebbe dovuto proporre una riforma che poi, emendata eventualmente dal Parlamento, sarebbe stata sottoposta a referendum popolare. Ma allora, evidentemente, non faceva scandalo.
La proposta di D’Alema prevedeva il superamento del bicameralismo paritario (ma pensa!) il rafforzamento dei poteri del governo rispetto al Parlamento (ma guarda!) e un moderato aumento dei poteri delle Regioni.
Non solo. La Commissione D’Alema proponeva anche un radicale cambiamento della forma di governo, con l’elezione popolare del Presidente della Repubblica, in un assetto semipresidenziale. Cioè molto di più di quello che propone oggi la riforma di Renzi, accusata da D’Alema di “rischio autoritario”.
Poi un bel mattino venne Bossi, fece uno starnuto e la Commissione D’Alema fu polverizzata. Irritato da questo smacco, poco dopo D’Alema fece cadere Prodi e assunse la guida del governo, gettando le basi per il fallimento della sinistra e il ritorno al potere di Berlusconi.
Non pago di tanto capolavoro, D’Alema sembra oggi intenzionato a offrire il bis.
La situazione presenta alcune analogie. Tagliato fuori dal Parlamento nel 2013, D’Alema ambiva al posto di Commissario alla politica estera europea, che invece è andato a Federica Mogherini. E’ questa la “poltroncina” per la quale D’Alema ha dichiarato guerra a Renzi (“io almeno Prodi l’ho compensato con la presidenza della Commissione Ue”, ha infatti dichiarato di recente, ospite di Lilli Gruber) e si è nuovamente lanciato, con impegno degno di miglior causa, nell'impresa di fare cadere il governo della sua stessa parte politica. Perché Renzi è riuscito a fare esattamente ciò che D’Alema stesso ha tentato e non gli è riuscito, cioè di riformare e modernizzare le istituzioni italiane.

Evidentemente, quello di lavorare per gli avversari è il mestiere che a Massimo D’Alema riesce meglio.

giovedì 6 ottobre 2016

I Sì sono una sintesi, i No solo una somma

Ripropongo qui, in forma più estesa, una considerazione tutta “politica” sul referendum del 4 dicembre, che ha già suscitato una vivace discussione su facebook. (Sul contenuto della riforma mi sono già pronunciato varie volte e ancora lo farò nei prossimi giorni).
Parto da una banale constatazione: chi vota Sì al referendum, vota per qualcosa. Chi vota No, vota semplicemente contro.  Ma c’è dell’altro.
Quelli che votano Sì, come gli altri, non la pensano affatto allo stesso modo, fra loro: sono elettori del Pd, di Forza Italia, dei Cinque Stelle eccetera, insomma votano per i partiti più diversi. Ma in occasione del referendum, essi riconoscono la validità - o l’opportunità, che è quasi lo stesso - di una proposta riformatrice. Dunque il voto per il Sì è un voto “laico”, perché riunisce persone diverse, con opinioni diverse, intorno a un progetto ben identificato e mirato. Per tutti costoro, la riforma della Costituzione è una sintesi, un minimo comune denominatore che appunto li “accomuna”, li unisce.
Viceversa, i No hanno un solo obiettivo: abbattere, o indebolire, il governo Renzi, ma con intenzioni le più disparate e con ambizioni spesso contrapposte. I grillini votano No perché Renzi è “il nuovo Berlusconi”, mentre i berlusconiani votano No per preparare il ritorno del loro leader; la vecchia sinistra vota No accusando Renzi di una svolta a destra; mentre la destra - quella vera, razzista e xenofoba - vota No per portare al governo Salvini; e così via. In altre parole, coloro che votano No sono una somma senza significato.
Votare No non è un progetto, non è una proposta, non è nulla. Si vota No per un calcolo di partito, alla ricerca di un vantaggio tattico, oppure per un preconcetto, per antipatia verso Renzi. Votare No non è laico, ma settario (se si esclude forse un’esigua minoranza, sempre innamorata dei dettagli).
Quali saranno, dunque, gli effetti del referendum?
La vittoria del Sì produrrà un rafforzamento del governo, che condurrà in porto la legislatura fino alle elezioni del 2018. Nient’altro. Mentre dalla vittoria del No, chi trarrà vantaggio?
La vecchia sinistra, al più, riuscirebbe a precipitare il PD nel marasma: un miserabile premio di consolazione. Forza Italia si illude di rilanciare il suo leader ottantenne, ma il tempo lavora per Salvini e Meloni. Più di tutti trarrebbe vantaggio il Movimento 5 Stelle. L’incubo di un governo grillino diventerebbe allora imminente e concreto. Bell’affare.

mercoledì 5 ottobre 2016

Ma non esistono riforme "perfette"

Suggerisco a tutti la lettura del bel pamphlet che Marilisa D’Amico, docente di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, ha scritto con Giuseppe Arconzo e Stefania Leone: “COME cambia la COSTITUZIONE? – Guida alla lettura della riforma costituzionale” (Giappichelli).
Il libretto (140 pagine) contiene in apertura un concetto fondamentale, per valutare come orientarsi al referendum del 4 dicembre. I giuristi lo chiamano “l’imperfezione dell’atto normativo”. La definizione è altisonante ma il principio è semplicissimo: tutte le norme giuridiche, per loro stessa natura, sono imperfette e dunque migliorabili. Di conseguenza, tutti i sistemi costituzionali, nessuno escluso, sono esposti a problemi interpretativi e a possibili conflitti. Lo stesso vale, ovviamente, per le proposte di riforma.
I sistemi giuridici “perfetti” esistono solo in astratto. La concezione stessa del diritto come “idea pura”, è pericolosa, tipica degli Stati etici e dei sistemi totalitari. Bisogna sempre tenerlo presente, anche quando si parla della Costituzione “più bella del mondo”.
A questo proposito, Marilisa D’Amico scrive parole illuminanti. E’ bene ricordare che nel dicembre del ’47, dopo lunghe discussioni e grandi compromessi, si decise infine di approvare il testo così come era stato licenziato dalla Commissione (salvo modifiche di bella forma) lasciando aperte un sacco di questioni, anche di fondamentale importanza, che infatti si sarebbero risolte solo anni o decenni più tardi. (Per la verità, alcune sono aperte ancora oggi, ma lasciamo perdere).
Se i Padri Costituenti, nel ’47, avessero deciso di respingere quel testo, con la motivazione che esso lasciava molte questioni aperte e che avrebbe creato numerosi problemi, la Costituzione “più bella del mondo” non avrebbe mai visto la luce. Nessuna Costituzione infatti può essere approvata con la certezza assoluta che essa funzionerà alla perfezione. Né esiste una Costituzione che possa piacere a tutti.
Viceversa, in questi giorni, ascoltiamo spesso ripetere questa litania: che nella riforma Renzi-Boschi non sono ben definite le prerogative del nuovo Senato, rispetto agli altri poteri dello Stato. Si tratta di una motivazione evidentemente strumentale, avanzata con grande superficialità, o spesso in malafede, da personaggi interessati a nascondere dietro ragioni tecniche e giuridiche, la propria ostilità - tutta politica - nei confronti del governo.
Sia ben chiaro: essere pregiudizialmente ostili al governo è legittimo, ci mancherebbe. Altrettanto legittimo è criticare una riforma poco convincente. Assai meno legittimo è invece sollevare grandi cortine fumogene, e trincerarsi dietro a grandi luminari e cattedratici ottuagenari, per nobilitare calcoli di partito e ambizioni personali inconfessabili.


lunedì 3 ottobre 2016

Toh, Asor Rosa vota No

Sul Corriere di oggi, a pagina 4, Alberto Asor Rosa difende le ragioni del No al referendum sulla riforma costituzionale. Non mi stupisce affatto. Asor Rosa (classe 1933) è uno dei peggiori intellettuali “organici” che il comunismo italiano abbia prodotto in 70 anni di storia - e non è un confronto fra pochi. “Ma questa è storia vecchia”, direte voi. Mica tanto.
Appena cinque anni fa, nel 2011, Asor Rosa invocava su Il Manifesto “una prova di forza proveniente dall’alto”, con la proclamazione dello stato di emergenza, l’intervento di Polizia e carabinieri, e poi il “congelamento delle Camere” e “la sospensione di tutte le immunità parlamentari”, e poi ancora “nuove regole elettorali stabilite d’autorità dalla magistratura”. Insomma un colpo di Stato stalinista in piena regola. Oggi costui dichiara al Corriere che il progetto riformatore di Renzi sarebbe “pericoloso per la democrazia” (caspita, questa non l’avevamo mai sentita).
“Ma - direte ancora voi - il fatto che Asor Rosa sia per il No non dimostra nulla. Con il referendum non c’entra”. E invece c’entra, secondo me. Primo, perché questa adesione al fronte del No è emblematica; secondo, perché ancor più significative sono le motivazioni addotte. Anche in questa intervista, infatti, il vecchio stalinista non rinuncia a dare prova della sua proverbiale disonestà intellettuale.
In apertura Asor Rosa premette: “Non sono un costituzionalista, dunque i miei apprezzamenti hanno ben poco di tecnico”. Poi conclude la stessa intervista così: “Bisogna spostare il dibattito sul merito della riforma. Anche se Renzi, che è una figura di estrema mediocrità politico-culturale, tende a focalizzare tutto su se stesso”. Chiaro, no? Asor Rosa emette il suo giudizio tutto politico, non tecnico; ma se non si entra nel merito della riforma, la colpa è di Renzi.
Sapete quale dovrebbe essere, secondo Asor Rosa, il compito “dell’uomo della sconfitta”, cioè dell’intellettuale organico rimasto orfano di partito e ideologia, dopo il fallimento del comunismo? “Obbligare l’Occidente a vedersi, e dunque aiutarlo a dissolversi” (A. Asor Rosa, “La guerra”, Einaudi, Torino 2002, pag.151). Avete capito? Per questo, secondo Asor Rosa, bisognerebbe votare No: per aiutare le democrazie liberali non a riformarsi, ma a suicidarsi, come piacerebbe a lui.
Lui che, ancora a proposito di Renzi, scrive che “sta giocando su un abbassamento generale del tessuto politico e culturale italiano”. Senti chi parla, verrebbe da dire. Per fortuna, qualcuno che ha letto qualche libro e che si ricorda bene di Alberto Asor Rosa, ancora c’è.


domenica 2 ottobre 2016

Nasce oggi il mio nuovo blog

Care amiche, cari amici, annuncio con questo mio primo editoriale il lancio del mio nuovo blog, LITTA CONTINUA. Ho deciso infatti di tornare a impegnarmi nel dibattito politico e culturale con interventi più meditati, più puntuali, meno improvvisati e casuali.
L’occasione che mi induce a espormi nuovamente è il referendum costituzionale.
Ho deciso di battermi a sostegno delle ragioni del SI’ alla riforma, contro tutti i qualunquismi di destra e di sinistra, contro gli astrattismi dottrinari e i calcoli faziosi, contro le invettive della demagogia e del populismo.
Cercherò di fare fronte a questo impegno con cadenza quasi quotidiana, a partire dai prossimi giorni.

Intanto, grazie anticipatamente a tutti coloro che vorranno seguirmi, che mi aiuteranno a fare conoscere questo blog, che mi onoreranno delle loro opinioni e delle loro critiche.