tag:blogger.com,1999:blog-26667365641199516022024-03-13T16:22:23.428+01:00LITTA CONTINUAIl blog di Alessandro Litta ModignaniAlessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.comBlogger221125tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-35039243189791608442024-03-07T12:13:00.002+01:002024-03-07T12:13:17.185+01:00L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani<p>Qui di seguito, la mia recensione del libro "L'antisemitismo fra ieri, oggi e domani", di Heinrich e Richard von Coudenhove-Kalergi (Mimesis) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.</p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Chi
furono in realtà i Kalergi, fautori di quel famigerato “piano”, che esalta gli
amanti delle teorie cospirative? Ci aiuta a scoprirlo Vincenzo Pinto, storico e
germanista, curatore di un saggio dal notevole interesse anche filosofico. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
volume è diviso in due parti. Nelle prime 80 pagine, Richard von Coudenhove-Kalergi
(1894-1972) spiega “L’odio attuale per gli ebrei”, proprio del suo tempo: siamo
nel 1935 e Hitler è al potere da un paio d’anni. Nella seconda parte, invece,
lo stesso Richard ripubblica il saggio di suo padre Heinrich (1859-1906) che
nel 1901 aveva scritto “L’essenza dell’antisemitismo”, un ampio saggio di
carattere storico e teologico, dall’antichità all’età moderna, fino a Lutero.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">I
Kalergi, padre e figlio, sono due aristocratici mitteleuropei di stampo illuminato
e tollerante. Colti e raffinati, amanti di Schopenhauer e Nietzsche, intendono
contrastare il dilagante nazionalismo tedesco, di cui l’antisemitismo è
l’aspetto più irrazionale.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
disprezzo e l’odio verso una minoranza religiosa e nazionale viene esaminato da
Richard nei suoi aspetti psicologici più reconditi. “Per amore della sua fede,
l’ebraismo ha affrontato una guerra mondiale di duemila anni contro tutta
l’Europa”. L’antisemitismo è una reazione sia al capitalismo che al comunismo,
perché gli ebrei sono accusati al contempo di essere bolscevichi e banchieri.
“Il sionismo fece di tutto per chiarire la questione ebraica, creando un
nazionalismo ebraico. Diminuì il disprezzo verso gli ebrei, ma ne aumentò
l’odio. Da casta disprezzata, il sionismo sta trasformando l’ebraismo in una
nazione odiata”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">L’antisemitismo
razziale, spiega ancora Kalergi jr., è basato su un fondamento
pseudo-scientifico: sembra una rivelazione, ma nasce da un pregiudizio
infantile che si trasforma in psicosi di massa. Non solo Gesù Cristo era ebreo,
ma anche tutti i suoi discepoli, compresi i quattro autori del Nuovo Testamento.
Quanto ai popoli dell’Europa, “sono così meticci che non si può parlare di una
razza pura”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Agli
albori del nazismo, l’autore osserva preoccupato: “Il colpo inferto agli ebrei
tedeschi è solo un monito, perché nessuno sa se sia un apice o un preludio”.
Quanto al sionismo, nonostante gli ammirevoli risultati ottenuti, “il futuro di
questa creazione resta incerto”. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Uno
dei prodotti più riusciti della filosofia politica dei Kalergi – scrive Pinto
nelle conclusioni – consisterebbe nel piano di sostituzione etnica della ‘razza
bianca europea’, attribuito all’europeista Richard. Tanto i Coudenhove-Kalergi
quanto George Soros appaiono come i diabolici ‘angeli caduti’ che fomentano la
distruzione dell’umanità, oppure come i visionari sostenitori di un mondo
aperto, integrato e libero”.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-82724873591916726162024-01-19T17:19:00.000+01:002024-01-19T17:19:11.590+01:00Il capanno del pastore, di Tim Winton (Fazi)<p> Qui di seguito, la mia recensione di Il capanno del pastore, di Tim Winton (Fazi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 17 gennaio.</p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Tim
Winton, uno dei più importanti e affermati esponenti della letteratura
australiana, offre un romanzo che pare ispirarsi alla grande narrativa
americana del Novecento. Winton ricorda London, Steinbeck, Faulkner, e più di
tutti Salinger. Jaxie, il ragazzo protagonista, presenta infatti molte
caratteristiche comuni al giovane Holden: parla in prima persona, è scurrile e
sgrammaticato, si rivolge ai lettori con arroganza e sarcasmo. Jaxie racconta
con ammirazione di Lee, la fidanzatina che sogna di raggiungere, così come
Holden parlava con orgoglio della sua mitica sorellina Phoebe. Ma l’accostamento
finisce qui. Se quello di Salinger era un romanzo leggiadro, questo è invece un
violento e durissimo dramma, ambientato nella desolata e desertica campagna
australiana.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
capanno del pastore</span></i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"> è diviso in tre parti. Nella prima, il
giovane protagonista si dà alla fuga, dopo aver trovato il padre, un macellaio
violento e alcolizzato, morto tragicamente nel garage di casa. Con la forza
della disperazione, a piedi, Jaxie ingaggia una lunga ed estenuante lotta per
la sopravvivenza, dormendo sotto le stelle. Nella seconda parte, quasi stremato
da fame e sete, il ragazzo incontra Fintan, l’altro protagonista del romanzo. Costui
è un vecchio solitario e derelitto, mezzo sordo, paterno e indulgente verso le
intemperanze del giovane. Fintan sembra un vecchio innocuo, ma nasconde con
vergogna segreti inconfessabili. Fra i due si stabilisce un rapporto positivo, tratteggiato
con sensibilità, realismo e poesia. Nella terza parte, infine, si svolge il
dramma imprevisto e violento - che non raccontiamo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Fintan
vive ai bordi di un arido e accecante lago di sale, forte metafora della
condizione umana e della solitudine dell’esistenza. “Da solo laggiù, il riva al
lago, un lago senz’acqua, cercava di arrangiarsi come poteva (…) Senza più
futuro, senza più niente in cui sperare, senza più uno scoglio a cui
aggrapparsi. Non aveva più famiglia né amici. In questo eravamo uguali, io e
lui”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
capanno del pastore</span></i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"> è un romanzo di qualità, che può iscritto
a pieno titolo anche nella letteratura di formazione.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Per
la prima volta nella vita so quello che voglio e ho quello che mi serve per
prendermelo. Se non avete mai provato questa sensazione, mi dispiace per voi.
Ma non è sempre stato così. Ho dovuto attraversare il fuoco per arrivare fino a
qui. Ho visto delle cose e ho fatto delle cose e mi hanno fatto delle carognate
che non ci credereste nemmeno. Quindi siate felici per me. E non mettetevi
sulla mia strada, porca troia”.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-57048179758246097552024-01-11T00:17:00.001+01:002024-01-11T00:28:35.276+01:00La scomunica di Hitler, di Oscar Levy (Edizioni Casagrande)<p>Solo in questi giorni mi sono accorto che il 21 ottobre scorso il quotidiano Il Foglio ha pubblicato questa mia recensione di "La scomunica di Hitler", di Oscar Levy (Edizioni Casagrande).<span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span></p><p>
</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">“Come
potete voi, Herr Hitler, un semplice patriota, anche solo osare entrare nel
tempio di Nietzsche e venerarlo al suo sacro altare? (…) Dove sono i vostri
antenati, la vostra genealogia, l’attestato della vostra razza e della vostra
religione? Voi aborrite il cristianesimo e l’ebraismo, ma credete davvero che
ogni pivello abbia il diritto di giudicare una religione che governa il mondo da
duemila anni? Credete veramente che ciò che spetta a Nietzsche, spetti anche a
voi?”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">Folgorato
dalla lettura dei testi di Friedrich Nietzsche, Oscar Levy, uno sconosciuto
ebreo tedesco, fra il 1909 e il 1913 cura la pubblicazione in Inghilterra dell’intera
opera del grande filosofo tedesco, in 18 volumi. Levy è un personaggio originale,
bizzarro: giudica il nazismo un’eresia ebraica, e il comunismo un’eresia
cristiana.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">La
sua lettera aperta a Hitler, del 1938, ora tradotta per la prima volta in
italiano da Vincenzo Pinto, rappresenta un vero e proprio atto di rivolta
contro tutte le letture plebee della filosofia nicciana.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">“Nietzsche
non era nazionalista, mentre voi lo siete. Nietzsche non era un socialista,
mentre voi lo siete. Nietzsche non era antisemita. (…) Chiamava gli antisemiti
i “perdenti’. Un’altra volta scrisse: ‘Il cielo abbia pietà dell’intelligenza
europea, se fosse privata di quella ebraica’”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">Levy
incalza implacabilmente Hitler sul terreno filosofico: “Col tempo gli europei
hanno capito che il vostro pangermanesimo era un’ideologia basata sulla
filosofia di Fichte e di Hegel”, e quanto al resto, “era una propaganda
assurda, ma come voi sapete e dite bene nel <i>Mein Kampf</i>, la propaganda
deve essere limitata e insensata per avere un successo sorprendente fra le
masse”. E aggiunge: “Ora, Herr Hitler, voi potete essere qualsiasi cosa:
salvatore, assassino, tribuno della plebe, sonnambulo o tutte e quattro queste
cose insieme. Ma io vi dico che non vi meritate nemmeno di lustrare le scarpe a
Nietzsche”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">A
sostegno delle sue tesi, l’autore cita Nietzsche che, in Zarathustra, scrive:
“Voglio avere steccati attorno ai miei pensieri e anche attorno alle mie
parole, perché i maiali e gli esaltati non irrompano nel mio giardino”, e nel
1884, in una lettera alla sorella: “Mi spaventa il pensiero che persone non
qualificate e del tutto inadeguate siano chiamate a esercitare la mia
autorità”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">Amarissimo
e profetico è il giudizio di Levy sulle responsabilità degli intellettuali: “La
verità in politica non sempre è necessaria (…) ma è essenziale nel regno della
scienza e della filosofia, perché il tradimento degli intellettuali porta al fallimento
dei politici, e il fallimento dei politici allo spargimento insensato di sangue
fra i popoli”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 12pt; line-height: 106%;">“Ma
noi – i pochi veri nicciani in questo falso mondo - non possiamo e non dovremo
avere dubbi. Non abbiamo nulla in comune con voi (…) Vi chiediamo quindi di
lasciare il nostro giardino”. La lettera aperta di Oscar Levy resterà inedita.</span></p><p></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-9529848314068460962024-01-08T19:47:00.002+01:002024-01-08T19:49:42.005+01:00"Un genocidio culturale dei nostri giorni", AA.VV., (Guerini)<p>Qui di seguito, la mia recensione di "Un genocidio culturale dei nostri giorni", AA.VV., (Guerini) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di sabato 6 gennaio.<span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">“Negli
ultimi trent’anni l’Azerbaigian ha causato la distruzione irreversibile del
patrimonio religioso e culturale, in particolare nella Repubblica autonoma del
Nakhichevan, dove sono state distrutte 89 chiese armene, 20.000 tombe e oltre
5.000 lapidi”: così il Parlamento europeo, che con la Risoluzione del 10 marzo
2022 esprime la sua ferma condanna per la sciagurata politica distruttiva del
governo di Baku.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Allo
scopo di documentare dettagliatamente lo scempio avvenuto, e con la recondita
speranza di scongiurarne uno nuovo e peggiore, Antonia Arslan e Aldo Ferrari
curano la pubblicazione di questo volume, che raccoglie testi di un qualificato
gruppo di letterati, archeologi e studiosi. L’opera è volta a dimostrare che
“la piccola e quasi sconosciuta regione del Nakhichevan – attualmente
Repubblica autonoma all’interno dell’Azerbaigian – sia stata per millenni parte
integrante del territorio e della cultura dell’Armenia”, prima del genocidio degli
inizi del Novecento.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Emblematica,
in questo senso, la distruzione dell’antica necropoli medievale di Giulfa, storico
centro armeno sul fiume Arasse (al confine con l’Iran) che ancora all’inizio
del ‘900 contava ben 18 chiese. Questa vasta necropoli era caratterizzata dalla
presenza di migliaia di <i>khachkar</i>, le grandi “croci di pietra” scolpite e
decorate, emblema storico della presenza dell’Armenia cristiana. Dopo gli
scempi di epoca sovietica, nel 1998 l’Azerbaigian decide di procedere a una
sistematica eliminazione delle grandi lapidi, che vengono abbattute, fatte a
pezzi, polverizzate, portate via o buttate direttamente nel fiume Arasse da
reparti regolari di soldati dell’esercito azero. “Queste fasi - scrive Martina
Corgnati - sono tutte documentate e fotografate da rappresentanti della Chiesa
armena, giornalisti e storici dell’arte iraniani e internazionali, spettatori
impotenti del tetro spettacolo che si svolgeva sull’altra riva del fiume”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">L’esigenza
di non dimenticare questo insieme di devastazioni è tanto più forte e
pressante, in quanto collegata al rischio concreto che, dopo la vittoria lampo
del 2020 e la recente pulizia etnica del settembre scorso, l’Azerbaigian
intenda ripetere nel Nagorno Karabakh – che gli armeni hanno sempre chiamato <i>Artsakh</i>
– la stessa politica di spopolamento e genocidio culturale già condotta nel
Nakhichevan.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Se
tutto ciò riguarda passato e presente, ancora più preoccupanti sono le
prospettive future. Nei bellicosi proclami di Baku, sempre più spesso l’intero
territorio della Repubblica d’Armenia viene denominato “Azerbaigian occidentale”,
cioè rivendicato come appartenente di diritto agli azeri. E’ del 2010 la
pubblicazione ufficiale di un libro dal sinistro titolo <i>Il khanato di Erevan</i>.
Nella prefazione, l’attuale presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, scrive:
“Erevan fu consegnata all’Armenia dai russi, ma la maggior parte della
popolazione era azera. Perciò, dal punto di vista storico, questa terra è
nostra”.<br /></span></p><br /><p></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-67231042116859229382024-01-05T20:59:00.001+01:002024-01-05T20:59:34.766+01:00Le mille e una notte, di Kader Abdolah (Iperborea)<p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"><i>Qui di seguito, la mia recensione di Le mille e una notte, di Kader Abdolah (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 3 gennaio.</i></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Ho
basato la mia versione delle <i>Mille e una notte</i> sulla traduzione persiana
di Abdollatif Tasuji e sulla rielaborazione di mio nonno e di mio bisnonno (…) In
Arabia Saudita <i>Le mille e una notte</i> è un libro completamente diverso
dalle versioni che si leggono in Egitto o in Siria, a loro volta diverse
dall’edizione persiana”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Dando
seguito a una consolidata tradizione familiare, Kader Abdolah – celebre
scrittore iraniano naturalizzato olandese - riscrive la sua personale versione
di uno dei libri più famosi e più letti al mondo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
questa opera non esiste un inizio e una fine, osserva l’autore, ogni storia può
essere letta indifferentemente come la prima o l’ultima. Il risultato è come un
grande fiume narrativo, paragonabile al Nilo: “La prima volta che vidi
l’antico, storico fiume Nilo, rimasi senza parole. Lo stesso stupore che ho
provato leggendo questo libro”. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
origine vi furono <i>I mille racconti,</i> un antico libro persiano - spiega
Abdolah - Mille era un numero sacro per i persiani, ma gli arabi volevano
dimostrare di essere superiori a loro anche sul piano linguistico, così ne
aggiunsero una.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Questo
immenso e magmatico portato di tradizioni, culture, storie e religioni orientali
conosce un momento decisivo agli inizi del Settecento, quando un illuminista
francese, Antoine Galland, trova per caso e traduce un paio di novelle. Poi ne
trova altre, parte per il Medio Oriente e infine, girando per i mercati, ne
raccoglie a centinaia. Sono racconti che in origine furono concepiti per
istruire oralmente una popolazione per lo più analfabeta. Circolavano
attraverso libretti popolari, cui Galland riesce a dare ordine e sistematicità:
un lavoro lungo 12 anni, per un libro di 12 volumi. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Protagoniste
indiscusse, in tutto il corso della narrazione, sono le donne: donne
intelligenti, abili nel mentire, scaltre e fantasiose nell’escogitare soluzioni
per sottrarsi alla prepotenza degli uomini. “Gli uomini sono bestie, non li
devi spaventare, soprattutto non a letto. Rimani quindi lì sdraiata e morditi
la mano se necessario, non durerà a lungo. Quando hanno finito, ti crollano
accanto come morti”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Shehrazade
è l’eroina di tutte le donne orientali: la figlia del visir è bella, colta e
furba, con i suoi racconti riesce a ipnotizzare il malvagio sovrano, che odia
le donne e che vuole ucciderle dopo averle possedute. Per dirla con le parole
di Borges, “<i>Le mille e una notte</i> è un’invasione dell’islam nella cultura
occidentale, ma un’invasione fatta con la forza dell’immaginazione”.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-16763456869439968222023-12-23T19:17:00.004+01:002023-12-23T19:17:56.496+01:00Uomini contro, di Mirella Serri (Longanesi)<p>Qui di seguito, la mia recensione di "Uomini contro. La lunga marcia dell'antifemminismo italiano", di Mirella Serri (Longanesi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 20 dicembre.</p><p></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nel
ricostruire “La lunga marcia dell’antifemminismo italiano”, Mirella Serri prende
spunto da una riunione di Direzione del Partito comunista italiano, neanche
tanto “storica”. Siamo nel 1961, all’ordine del giorno vi è, fra le altre cose,
la nomina di Nilde Jotti alla presidenza della Commissione femminile.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">La
candidata viene sottoposta a un fuoco di fila di reprimende insopportabili. Amendola
fa riferimento alle “questioni personali e familiari già note”; Berlinguer rincara:
“Non sono sicuro che possa portare a quel posto di direzione la serenità
necessaria”; Pajetta parla esplicitamente di “difetti” che Jotti dovrà
“correggere e superare”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">La
tesi di Serri è che le donne abbiano dovuto affrontare, dopo la Resistenza e
fino agli anni Duemila, un autentico “contrattacco” da parte degli uomini al
potere (comunisti, democristiani, berlusconiani) nel tentativo, in parte
riuscito, di contrastare la “democrazia paritaria” prefigurata dalla
Costituzione.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">La
storia che lega Jotti al leader storico del Pci, Palmiro Togliatti, è
ricostruita nei dettagli. Quando nasce l’idillio, nel ’46, lei ha 26 anni e lui
53. Il Migliore scarica la moglie tra la riprovazione generale dei dirigenti
del partito – molti dei quali però si comportano anche peggio. Nilde non avrà
mai vita facile: nel ‘48 le viene imputato l’insuccesso elettorale di aprile e
l’attentato al segretario a luglio. Solo nel 1979 avrà il meritato
riconoscimento, con l’elezione alla presidenza della Camera.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">L’altra
figura centrale del saggio è quella di Julius Evola, filosofo nazi-fascista,
misogino e antisemita. Evola piace al Duce e a Hitler, e sarà il grande
ispiratore di un’intera generazione di neofascisti ostili all’Italia
repubblicana, compresi gli stupratori del Circeo. L’autore di “Rivolta contro
il mondo moderno” (1934) è uno snob, aristocratico e solitario, pittore dadaista
e avvezzo alla cocaina. Grande appassionato di orge sessuali promiscue, ammira
D’Annunzio e Oscar Wilde. I suoi nemici giurati sono gli ebrei e, inutile
dirlo, le donne emancipate.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Particolarmente
interessante è il filo che collega il pensiero di Evola al presidente/dittatore
Vladimir Putin, la cui “legge sugli schiaffi” ha depenalizzato la violenza
domestica in Russia, derubricandola a infrazione amministrativa. E’ Alexsander
Dugin, l’ideologo di Putin, a tradurre Evola in russo e a introdurlo nel
dibattito pubblico, in una sorta di mescolanza perversa fra fascismo russo e
neo-stalinismo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“La
lunga marcia dell’antifemminismo italiano è approdata in Russia e alimenta
l’ostilità nei confronti del sistema democratico dell’Occidente”.</span></p><br /><p></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-37969272812682139582023-12-17T09:17:00.001+01:002023-12-17T09:17:39.227+01:00"La Shoà e le sue radici", di Ugo Volli (Marcianum Press)<p>Qui di seguito, la mia recensione di "La Shoà e le sue radici", di Ugo Volli (Marcianum Press) pubblicata nell'inserto del sabato del quotidiano Il Foglio di ieri con il titolo: "Nulla sarà mai come la Shoah. La civile Europa non rifiutò affatto il genocidio. Un libro."</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Fra
tutti i miei libri, questo è forse quello che mi è costato di più sul piano
emotivo. (…) Non è una ricerca storica originale né una teorizzazione
innovativa (…) Molto più modestamente, si tratta di una guida didattica”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
verità non c’è nulla di modesto, in questa completa, circostanziata e ben documentata
ricostruzione di Ugo Volli, “La Shoà e le sue radici” (Marcianum Press, 226
pagine, 23 euro). Tutt’altro.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Dal
confronto con altri genocidi riconosciuti, come quello armeno, emergono subito
numerose differenze specifiche: la Shoà è stata un genocidio del tutto fine a
se stesso, volto a eliminare qualsiasi individuo anche solo di lontana origine
ebraica, comprese le donne e i bambini, per estirpare la “razza ebraica”, cioè
una presunta caratteristica biologica; ancora, la Shoà non ha riguardato un
popolo straniero, ma concittadini integrati da secoli nelle società europee;
infine ha avuto, al suo culmine, una modalità “industriale”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nel
1937 Hitler è ancora prudente: “Non voglio costringere subito un nemico a
combattere, ma dico: ‘Voglio distruggervi!’ Con la mia astuzia vi sto
stringendo in<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>un angolo in modo tale che
non riusciate a sparare un solo colpo; ed è allora che arriverà la coltellata
al cuore”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">A
quell’epoca, spiega Volli, l’obiettivo immediato del regime nazista non era ancora
lo sterminio totale, bensì l’espulsione dal Reich del maggior numero possibile
di ebrei. Per quanto colpiti da una serie di divieti insopportabili, e nonostante
tutte le pressioni, una parte consistente non volle o non riuscì a fuggire. La conferenza
di Evian e il blocco dell’immigrazione in Palestina da parte dell’Impero
britannico, chiusero agli ebrei europei ogni possibile via di fuga.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nel
corso della conferenza di Wansee, che implementa i campi di sterminio con l’utilizzo
del gas, è l’andamento stesso della riunione a dimostrare che il genocidio non
fu affatto la “follia” di un capo isolato, bensì un progetto collettivo, “frutto
di un lavoro coordinato, volonteroso, persino entusiasta da parte di persone
perfettamente coscienti di cosa stesse accadendo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Volli
nega pertanto la fondatezza delle tesi di Hannah Arendt: sia la lettura della
“banalità” dei gerarchi nazisti, che si sarebbero allineati alle disposizioni
di Hitler “senza pensare”, sia l’accusa di collaborazionismo mossa ai Consigli
ebraici.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nella
civilissima Europa, la Shoà ha incontrato ben poca opposizione, osserva
l’autore. Le popolazioni europee non rifiutarono affatto collaborazione con il
genocidio, anzi spesso vi parteciparono attivamente. Molte persone agirono per
interesse, ideologia, ma soprattutto per odio, rancore, invidia. Tutto questo,
per un substrato di pregiudizi ben consolidati, che precedono di 15 o 20 secoli
l’uso di termini moderni quali “razzismo” o “antisemitismo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Per
contro, la resistenza ebraica al nazismo, l’insurrezione disperata dei ghetti, e
“in particolare le rivolte nei campi della morte di Treblinka, Sobibor,
Auschwitz-Birkenau (…) ben dopo la fine della guerra determinarono un
cambiamento significativo della percezione che la società europea aveva degli
ebrei e insieme, che gli ebrei avevano di se stessi”. La nascita di Israele,
pertanto, non rappresenta affatto una compensazione della Shoà.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“I
carnefici sono riusciti a uccidere molti milioni di ebrei (…) ma non a
eliminare il popolo ebraico, che anzi ha reagito alla minaccia mortale
proveniente dall’Europa invertendo il percorso della diaspora e riedificando un
proprio stato nazionale dopo millenovecento anni di esilio”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Questo
“percorso didattico” dovrebbe essere adottato in tutte le università italiane,
ma purtroppo non accadrà.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-83327907968132172552023-11-12T16:28:00.000+01:002023-11-12T16:28:22.477+01:00La suite di Giava, di Jan Brokken (Iperborea)<p>Qui di seguito, la mia recensione di La suite di Giava, di Jan Brokken (Iperborea) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì scorso.</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">Jan
Brokken ritrova e rilegge le lettere che sua madre Olga scrisse in gioventù alla
sorella, durante gli anni del soggiorno in Indonesia. Prendendo le mosse da
questo spunto narrativo, l’autore di </span><i style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">Anime baltiche</i><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;"> riscopre un capitolo
semi-sconosciuto della vita dei genitori, e torna a riflettere sul passato
coloniale olandese.</span><b style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;"> </b><i style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">La suite di Giava</i><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;"> è anche un racconto
musicale: Brokken si decide a scrivere dopo l’ascolto radiofonico del brano </span><i style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">I
giardini di Buitenzorg</i><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;"> (titolo originale del libro) del compositore polacco
Leopold Godowskij - che poi si scoprirà essere un ebreo lituano: un’altra
“anima baltica” che popola l’affollata galleria dell’autore olandese. Nelle
lettere della madre, quel brano è associato al frusciare degli alberi dell’orto
botanico indonesiano in cui aveva vissuto giorni felici.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">I
genitori di Brokken, novelli sposi, nel 1935 sbarcano a Giava, colmi di
speranza e di spirito d’avventura. Lui è un pastore protestante, con l’ambizione
di cristianizzare gli abitanti dell’arcipelago; lei una donna colta, industriosa,
ottimista e vitale.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Nella
città vigeva una forma di apartheid. A Makassar c’era un quartiere europeo dove
vivevano anche i cinesi facoltosi, un quartiere cinese povero pieno di case da
gioco e fumerie d’oppio, un quartiere buginese vicino al porto, un quartiere
ambonese e diversi <i>kampung</i> makassari”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Diviso
fra isole maggiori e minori, l’Indonesia è una babele di lingue e dialetti, un
problema con cui la giovane coppia sa misurarsi con successo durante tutto il
lungo periodo di soggiorno.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Ma
anche se l’utilizzo della lingua ci ha evitato di vagare al di fuori
dell’immaginario nativo, c’era un altro rischio da cui dovevamo guardarci, e
cioè dall’intervenire salendo in cattedra. La tendenza degli europei a salire
in cattedra con i nativi è assai discutibile; bacchettare il nativo e
riempirlo di rimproveri per gli europei è un diritto”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
momento più intenso e drammatico del libro è dato dall’occupazione giapponese,
quando tutti i cittadini olandesi vengono arrestati e rinchiusi in duri campi
di prigionia. Olga racconta lo choc provato, nel vedere le donne locali inveire
contro di loro, e prendere a sassate i camion stipati di donne olandesi, con le
quali avevano vissuto in armonia fino a pochi giorni prima. Dopo la guerra
scrive:<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Nel
campo ho imparato cos’è un mondo senza Dio e senza giustizia. Non so più bene
cosa ci facciamo qui. E’ il paese più bello del mondo, mi piacerebbe rimanere
qui per sempre, in giustizia però, e su una base di rispetto; e temo che ciò
non sia più possibile”.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-9636991317898278432023-10-01T16:23:00.000+02:002023-10-01T16:23:06.479+02:00Il sionismo americano fra le due guerre mondiali<p>Qui di seguito, la mia recensione di "Il sionismo americano fra le due guerre mondiali", AA.VV. (Ed. Le Lettere) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di venerdì 29 settembre.<span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Tre
studiosi autorevoli e assai ben documentati esplorano un capitolo minore, o
meglio meno conosciuto, della storia epica del movimento sionista. Accanto al
più noto sionismo europeo – quello fondato da Herzl, guidato da Weizmann e
realizzato da Ben-Gurion – vi fu infatti un sionismo americano, che molto diede
all’altro non solo in termini finanziari, ma anche organizzativi, progettuali e
realizzativi. Leader carismatico e protagonista assoluto dell’ebraismo d’oltre
Atlantico fu Louis Brandeis, il primo ebreo americano a essere nominato membro
della Corte suprema.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Nella
prima parte, David Elber analizza le tappe fondamentali del percorso che porta
al riconoscimento internazionale del sionismo, dalla dichiarazione Balfour
(1917) ratificata da Wilson l’anno successivo, al trattato di Versailles (1919)
fino alla conferenza di Sanremo (1920) con il Mandato britannico per la
Palestina – “mandato”, ricorda Elber, conferito al preciso scopo di concorrere alla
creazione di una “<i>National Home</i>” per il popolo ebraico. Sono questi
passaggi a legittimare compiutamente la nascita di Israele, nell’ambito della
comunità internazionale. Un percorso irto di ostacoli, se solo si pensa che il
laico e anticlericale Clemenceau, vedendo minacciati gli interessi francesi in
Medio oriente, non riesce a dire a Weizmann altro che queste parole: “Noi
cristiani non possiamo perdonare gli ebrei per avere crocifisso Cristo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Nella
seconda parte, Antonio Donno ricostruisce le vicende che portano allo scontro
fra i sionisti delle due sponde dell’Atlantico. Brandeis è il tipico ebreo
americano assimilato: efficientista, economicista, concreto e pragmatico. Egli
scopre il sionismo dopo i cinquant’anni, un’autentica rivelazione, e riversa
nel movimento le sue grandi doti organizzative e gestionali. Per Brandeis,
sionismo e americanismo sostanzialmente coincidono: una visione piuttosto
ingenua, alla<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>luce della tragica
condizione degli ebrei europei. Al termine della prima guerra mondiale,
Brandeis ha l’immenso merito di convincere Wilson a sottoscrivere ufficialmente
la dichiarazione Balfour, malgrado l’opposizione del segretario di Stato
Lansing.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Infine,
Giuliana Iurlano analizza a fondo le personalità di Weizmann e Brandeis, e il
loro inevitabile “scontro fra giganti” nella convenzione di Baltimora (1920) che
porterà a un indebolimento del sionismo mondiale per oltre un decennio. Brandeis
viene criticato per essere un “<i>silent leader</i>”, assente nei momenti
cruciali a causa del suo prestigioso incarico, e viene sfiduciato insieme a
tutta la sua corrente. A posteriori, tuttavia, molte delle sue proposte e indicazioni
saranno riprese e recepite nella costruzione dello Stato ebraico. Sarà proprio
Weizmann a definire le sue differenze con Brandeis come “un <i>revival</i>, in
una nuova forma e in un nuovo paese, della vecchia scissione fra Est e Ovest”,
nell’ebraismo e nel sionismo.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-46078982959333856282023-09-22T00:30:00.000+02:002023-09-22T00:30:16.006+02:00Ispirazione genocida<p>Qui di seguito, l'articolo a mia firma apparso sul quotidiano Il Foglio di ieri, dal titolo "Ispirazione genocida - Così lo sterminio turco degli armeni rese possibile e realizzabile la Shoah. Un saggio".</p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Il
genocidio armeno è l’inizio degli orrori del Novecento, e la sua connessione
con la Shoah è ormai indiscutibile”. Così la filosofa americana Siobhan
Nash-Marshall introduce “Giustificare il genocidio”, un libro di grande rilievo
storiografico, che meriterebbe di essere studiato in tutte le università del
mondo. L’autore, Stepan Ihrig, è uno storico tedesco, attualmente direttore del
Centro di studi germanici ed europei di Haifa, Israele. Pubblicato nel 2016
dall’Università di Harvard, il corposo volume (quasi 500 pagine) esce ora in Italia
edito da Guerini, con il sottotitolo “La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da
Bismarck a Hitler”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Solo
se si approfondiscono le lontane origini del nazionalismo tedesco, della sua
malintesa “realpolitik”, del suo disprezzo razziale che accomuna armeni ed ebrei,
si riesce a rintracciare il filo rosso che conduce dai massacri ottomani di
fine Ottocento ai forni di Aushwitz.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Già
nella Germania guglielmina, infatti, Bismarck è il grande protettore del
Sultano, difende a ogni costo il suo operato, tutela l’impero in disfacimento
dagli appetiti delle potenze europee. Quando nel “biennio rosso” 94/96 Abdul
Hamid dà il via ai massacri su larga scala degli armeni, la stampa nazionalista
tedesca tende a occultare e minimizzare, parla di fatti di lieve entità,
scarica le responsabilità sui “predoni curdi”. I morti sono fra i cento e
duecentomila, e proprio l’impunità garantita al sanguinario Sultano indurrà i
suoi successori all’ideazione del progetto genocidario.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Secondo
la propaganda nazionalista e filo-turca, gli armeni sono gli “ebrei d’Oriente”,
anzi “super-ebrei”: gente falsa, infida, mercanti dediti a loschi traffici, allo
sfruttamento e all’usura. Come gli ebrei, anche gli armeni sono gente senza
patria, pronta a tradire. I massacri rappresentano dunque una risposta necessaria,
e pertanto giustificabile, al rischio reale di disfacimento dell’impero.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Allo
scoppio della guerra, il regime dei Giovani Turchi avvia processo di sterminio
e di nuovo la Germania sostiene l’alleato, allineandosi al negazionismo ufficiale.
I massacri avvengono sotto gli occhi dei militari e dei diplomatici tedeschi. Le
“deportazioni” sono lo strumento preordinato, intenzionale e sistematico per la
completa cancellazione del popolo armeno.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">La
stampa tedesca – con poche eccezioni - giustifica l’operato dei turchi, accusa
gli armeni di tradimento e di intelligenza con il nemico russo. Non esistono
prove di una corresponsabilità diretta nella decisione di sterminare gli
armeni, ma certo la Germania è “lo spettatore silenzioso, lo scudo protettivo,
il facilitatore degli ottomani”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Dopo
la guerra, grazie soprattutto agli scritti di Johannes Lepsius e Armin Wegner,
l’opinione pubblica tedesca viene messa al corrente dell’accaduto. Il libro
ricostruisce minuziosamente il processo e l’assoluzione di Soghomon Tehlirian, l’armeno
che ha giustiziato il triumviro Talat Pasha nelle strade di Berlino (1921). La
Germania è scossa. Poiché il genocidio non può più essere negato, la propaganda
nazionalista passa dal negazionismo al giustificazionismo. Agli armeni si
imputa la famigerata “pugnalata alle spalle” - la stessa accusa che sarà poi rivolta
agli ebrei. Di nuovo, si sottolineano le caratteristiche “razziali” degli
armeni, accomunati ai loro “cugini semiti”. Il genocidio è apertamente
riconosciuto come atto di “legittima difesa”, preparando il terreno per la
Shoah.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Hitler
detesta gli armeni quasi quanto gli ebrei, ammira svisceratamente Kemal Ataturk,
afferma e scrive in varie circostanze - qui rigorosamente documentate - di
ispirarsi alla “soluzione turca”. Il rapporto fra nazionalismo turco e nazismo
tedesco è di centrale importanza, dal punto di vista ideologico, e questo
collegamento viene analizzato in dettaglio nel corso del volume.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Come
questo libro ha dimostrato – scrive Ihrig nelle conclusioni – il genocidio
armeno deve aver insegnato ai nazisti che crimini così incredibili potevano
restare impuniti (...) Il fatto che si potesse ‘farla franca’ deve avere
costituito un precedente di grande ispirazione (…) Il genocidio armeno aveva
reso il genocidio pensabile e, a quanto pare, giustificabile”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Franz
Werfel termina il suo romanzo in tutta fretta, fra il ’32 e il ’33, nel
tentativo di metter in guardia il popolo tedesco, ma ormai è troppo tardi: i
nazisti sono al potere e il libro finisce al rogo. <i>I quaranta giorni del
Mussa Dagh</i> sarà però di ispirazione per gli ebrei e per la loro disperata
resistenza, nei ghetti di tutta Europa.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-15709717025618241772023-09-15T12:49:00.004+02:002023-09-15T12:49:45.508+02:00La commedia cosmica, di Frank Westerman (Iperborea)<p style="text-align: justify;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span style="font-size: 18.6667px;"><i>Qui di seguito, la mia recensione di La commedia cosmica, di Frank Westerman (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì scorso.</i></span></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Prende
le mosse da Galileo e dalla Santa Inquisizione, l’interessante viaggio di Frank
Westerman – giornalista olandese maestro nella saggistica narrativa –
attraverso la “commedia cosmica”, la storia affascinante ma anche grottesca
dell’uomo alla conquista dell’universo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">L’osservatorio
radioastronomico di Westerbork, in Olanda, sorge sul terreno di un <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>campo di concentramento nazista, da cui
transitarono oltre 100.000 ebrei, prima di essere deportati e soppressi ad
Auschwitz e Sobibor. “La Mission Control C, mi resi conto in quel momento, si
trovava esattamente di fronte all’ex baracca 56, dove Anna Frank e la sua
famiglia furono messi ai lavori forzati”. I buchi neri del cosmo catturano la
materia, il buco nero di Westerbork ingoiava esseri umani. L’osservatorio e il
lager sono due centri nevralgici: uno in commessione diretta con l’inferno,
l’altro con il cielo alla ricerca dell’infinito. “Il Giano bifronte
dell’umanità”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">All’inizio
del ‘900, Schiapparelli osserva i canali di Marte, così lineari da fare pensare
all’opera di esseri intelligenti. Nasce la mania dei “marziani”, che affascina
i futuristi e le persone suggestionabili, fra le quali un tale Percival Lowell,
ricchissimo, pacifista e vegetariano. Imbevuto di positivismo, costui sostiene
che “la scoperta delle verità nello spazio non differisce, se non nell’oggetto
dell’indagine, dalla scoperta dei crimini sulla Terra”. Lowell ammonisce a
distinguere la “mera congettura” dal risultato di un ragionamento logico, e afferma
che quelli di Marte sono canali irrigui, dunque necessariamente provvisti a
metà strada di impianti di pompaggio: un perfetto esempio di ragionamento
logico.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Il
russo Leonov fu il primo uomo a uscire dalla sua navicella per una passeggiata
nel vuoto. Ma solo dopo la fine del comunismo si seppe com’era andata davvero:
una disavventura tragicomica, fortunatamente a lieto fine. Come del resto
quella di Sergej Krikalev, lanciato con la <i>Mir</i> all’epoca del crollo
sovietico, costretto a bivaccare mesi nello spazio, perché a terra non c’era
più chi potesse prendere le decisioni. Ritornò solo nel ’92, con addosso le
insegne di un impero che non esisteva più.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">L’azienda
olandese MarsOne, fallita nel 2019, in poco tempo ha raccolto l’adesione di
oltre 10.000 volontari pronti a trasferirsi su Marte. Ma per fortuna ora in
India si fabbricano robot umanoidi, che saranno lanciati nello spazio alla
ricerca di nuovi mondi - mentre il nostro chissà che fine farà. “Chi potrà
impedire che un giorno negli insediamenti extra-terrestri Caino uccida suo
fratello Abele?”.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-38594129965353679812023-09-10T16:57:00.000+02:002023-09-10T16:57:14.594+02:00Colloqui con Guglielmo Ferrero (Edizioni Il Foglio) <p>Qui di seguito, la mia recensione di "Colloqui con Guglielmo Ferrero", di Bogdan Raditsa (Edizioni Il Foglio) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.</p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Di
tutte le stravaganze e le fantasie che furono messe in giro da un secolo e
mezzo, sotto il nome di filosofia della storia, sfido chi si sia a trovar
traccia nell’opera mia: sfido specialmente a trovar traccia della illusione (…)
che nel campo della storia si possano trovare leggi simili a quelle che
governano i fenomeni della natura”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Basterebbe
questa affermazione, forte e chiara, di Guglielmo Ferrero (1871-1942) a
spazzare via qualsiasi ipotesi di una sua connivenza con il positivismo. E
invece no: questa accusa gli fu rivolta, da Croce da Gramsci e da altri,
condizionata forse dal fatto che egli sposò la figlia di Cesare Lombroso, Gina,
e che il fondatore dell’antropologia criminale effettivamente ebbe un ruolo
importante nella sua formazione universitaria.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Considerato
un pensatore “minore” dai pochi studiosi che se ne sono occupati, Ferrero fu un
intellettuale eclettico e originale della prima metà del Novecento, sicuramente
liberale e fermamente antifascista. Di recente è stato citato in termini
positivi da Giuseppe Berti nella sua splendida antologia “Crisi della civiltà
liberale e destino dell’Occidente” (Rubbettino) suscitando anche l’attenzione
di Dino Cofrancesco. Ferrero fu storico dell’antica Roma, poi saggista e
commentatore politico, infine romanziere; Carlo Gambescia, curatore di questo
saggio, lo arruola d’ufficio fra i “sociologi della libertà”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Nell’analizzare
i sistemi di potere del passato e del presente, Ferrero individua la categoria
della “paura reciproca” di governati e governanti: i primi chiedono “<i>securitas</i>”
ai secondi, questi ultimi invece temono di perdere il potere e chiedono il consenso.
Da qui scaturisce il principio di legittimità, che non può mai essere eluso, in
qualsiasi sistema di governo, pena la sconfitta della civiltà e il ritorno alla
barbarie.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">All’origine
della società e dei processi storici vi è sempre “un’interazione fra individui;
interazione i cui effetti di ricaduta collettiva, contenutistici, non sono
previsti dagli individui stessi. Pertanto è l’individuo che crea,
inconsapevolmente, le istituzioni”. Da questa impostazione scaturisce una sorta
di “mano invisibile sociologica”. Insomma Ferrero è “un pensatore concreto che
resta a guardia dei fatti. Perciò quanto di più lontano dall’ottimismo
positivistico-stadiale (…) Quindi si muove nella libertà e a difesa della
libertà”. Fu uno scienziato sociale, consapevole dei limiti delle scienze
sociali.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Questi
Colloqui con il genero, Bogdan Raditsa, usciti nel 1939, sono oggi un’opera
rarissima, difficile da reperire persino nelle biblioteche. Oltre ai Colloqui,
il saggio contiene due Discorsi dello stesso Ferrero, uno incentrato sugli
insegnamenti da trarre dalla grandezza e decadenza dell’antica Roma (“La
storia, come tutti i fenomeni della vita, è l’opera inconsapevole di sforzi
infinitamente piccoli”) l’altro sulla figura e sul pensiero di Niccolò Machiavelli.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-7091196600600890722023-09-07T21:40:00.004+02:002023-09-07T21:40:37.805+02:00"La questione ebraica nella società postmoderna", di Emanuele Calò<p>Qui di seguito, la mia recensione di "La questione ebraica nella società postmoderna", di Emanuele Calò, pubblicata in seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di stamane.</p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">E’
un pozzo senza fondo, il recente saggio di Emanuele Calò su “La questione
ebraica nella società postmoderna” (Edizioni Scientifiche Italiane, 500 pagine,
60 euro). Il proposito di percorrere “Un itinerario fra storia e microstoria”,
come da sottotitolo, è ben rappresentato dalle oltre 1400 note che accompagnano
il testo: una vera e propria miniera di riferimenti bibliografici, excursus
letterari, micro-biografie, testimonianze, aneddoti.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Calò
affronta la questione ebraica a partire dalla storia del Ghetto, dalla bolla “infame”
di Paolo IV (1555) all’Editto sopra gli ebrei di Pio VI (1775) “la pagina più
nera della storia dell’umanità”. Nel 1579, “il lunedì da sei giudei ignudi et
sigillati in fronte (come al solito) si corse lo pallio; dopo queste bestie
bipedi correranno le quadrupedi”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Qualunque
altra stirpe in tali condizioni sarebbe scomparsa, incapace di sopportare un
disprezzo così profondo – scrive l’autore - ma gli ebrei ne furono capaci, e si
conservarono, indistruttibili, nel cuore stesso del cattolicesimo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Le
tesi di Marx sulla questione ebraica vengono liquidate con precisione, unitamente
all’intero impianto dello storicismo marxista. Analogamente, Calò si libera con
ironia della tesi di<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Freud su un “Mosè
egiziano”: “Questa sua ricostruzione, poco credibile e per nulla condivisa,
getta più una luce freudiana su Freud che sull’oggetto del suo studio”. Per
contro, “la ferocia hitleriana sconvolse Freud come umanista, ma non come
pensatore, avendo egli sempre negato la supremazia della cultura sull’istinto
di distruzione, che riteneva impossibile eliminare dall’animo umano”. Sartre,
da parte sua, avverte che “gli antisemiti si divertono”, perché l’antisemitismo
è una passione, mentre Einstein suggerisce causticamente di lasciare
l’antisemitismo ai non ebrei (anche se il codazzo degli ebrei che si aggregano,
commenta Calò, è “ontologicamente ineliminabile”). Quanto a Irene Némirovsky,
la sua produzione letteraria potrebbe indurre a incasellarla come ebrea
antisemita, ma in realtà l’ebraismo era l’ultimo dei suoi problemi, perché il
primo era la madre (che infatti dopo la Shoah respinse le nipoti, urlando loro da
dietro la porta di rivolgersi a un orfanotrofio).<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Il
terzo capitolo, dedicato all’Olocausto, è il più significativo e naturalmente
il più doloroso. Il libro rievoca la conferenza di Evian (luglio 1938, 32 Stati
partecipanti) convocata da Roosevelt per affrontare il problema dei profughi
ebrei, che nessuno vuole accogliere. “Poche volte nella storia si è assistito a
uno spettacolo più miserando”. Recordman dell’ignavia è il rappresentante
australiano: “Non abbiamo problemi razziali in Australia e non vogliamo
importarne uno”. E’ certamente curioso, annota l’autore, che Hitler, pur avendo
la prova inoppugnabile del disinteresse mondiale per gli ebrei, abbia continuato
a credere fino alla fine dei suoi giorni che gli ebrei controllassero il mondo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Nella
famigerata conferenza di Wannsee, emerge che l’impegno nazista alla espulsione
degli ebrei è arrivato a quota 537.000, ma è bloccato dai rifiuti dei paesi
destinatari. “In quel momento per i nazisti lo sterminio non era
indispensabile; ne avrebbero fatto a meno se il mondo avesse accolto gli
ebrei”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Il
volume infine affronta le controversie storiche e giuridiche concernenti le
guerre e la statualità di Israele, la definizione di antisemtismo dell’Ihra, la
campagna discriminatoria del BDS, i pronunciamenti della Cedu. Nel complesso,
una monumentale <i>summa</i> di storia, letteratura, filosofia, politica e
diritto, un poderoso strumento di conoscenza e riflessione contro
l’antisemitismo eterno.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-82540733957026302472023-07-07T00:53:00.001+02:002023-07-07T01:31:23.284+02:00Raccolto di dolore, di Robert Conquest (Rizzoli)<p>Qui di seguito, la recensione di "Raccolto di dolore - Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica", di Robert Conquest (Rizzoli) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 5 luglio.</p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">“Il
problema della nazionalità è, nella sua essenza più profonda, un problema di
contadini”. Così Stalin, che fra il 1929 e il 1933 decide in piena
consapevolezza di risolvere il problema della nazionalità ucraina, sterminando
dapprima l’intera la classe colta (scrittori, artisti, poeti, insegnanti e
preti: la “Rinascita fucilata”); poi tutti i cosiddetti “kulaki”, cioè i
piccoli proprietari terrieri che vivono del loro raccolto (circa 5 milioni); <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>infine i contadini in quanto tali, in gran
massa, non solo in Ucraina ma anche nel Caucaso settentrionale, in Asia
centrale fra il Don e il Volga e fino al Kazachistan (altri 7 milioni). In
totale, secondo una stima prudenziale e qui ben documentata, circa 11 milioni
di esseri umani soppressi in quattro anni, cioè un numero di morti superiore a
quello della Prima guerra mondiale, in un lasso di tempo analogo. A questi
vanno aggiunti almeno altri 3,5 milioni di deportati, morti di stenti nei
“campi di lavoro” negli anni immediatamente successivi, che portano il computo
totale del “Raccolto di dolore” a oltre 14 milioni di anime.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">La
“carestia terroristica” è lo strumento che viene scientemente utilizzato, per
implementare la definitiva presa di potere dei comunisti russi sui popoli
dell’Unione sovietica. Vengono sequestrati il grano, gli animali, la legna, il
denaro, mediante perquisizioni sistematiche, arresti, deportazioni di massa,
fucilazioni sul posto. Lo stesso partito comunista ucraino è vittima delle
condanne, delle esecuzioni, delle purghe. Mentre si procede nel genocidio, la
carestia viene negata ed espulsa dal discorso pubblico: la parola “carestia”
non può venire scritta né pronunciata, pena la condanna a cinque anni di
reclusione (Putin, in questo senso, non ha inventato nulla).<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">Solo
mezzo secolo dopo, nel 1986, lo storico inglese Robert Conquest riesce a
pubblicare il frutto della sua rigorosa ricerca, che viene snobbata dal regime
sovietico al tramonto e boicottata dai tanti simpatizzanti pro Mosca che
militano nella cultura e nella stampa occidentale (anche qui, nessuna novità).
Il libro esce in Italia solo 18 anni più tardi, nel 2004, ed è ora riproposto
da Rizzoli. “A distanza di 37 anni, questo libro regge bene”, scrive Federigo
Argentieri nella postfazione. Nel suo celebre “Secolo breve” (1994) lo storico
marxista inglese Eric Hobsbawn aveva dedicato all’olocausto ucraino solo quest’unico
passaggio: “L’effetto immediato [della collettivizzazione] fu di abbassare la
produzione del grano e quasi di dimezzare l’allevamento, provocando così nel
1932-33 una grande carestia”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-30452596441239548542023-06-22T23:36:00.000+02:002023-06-22T23:36:40.094+02:00Il caso Morel, di Rubem Fonseca (Fazi)<p style="text-align: left;"><span style="text-align: justify;">Qui di seguito, la mia recensione di Il caso Morel, di Rubem Fonseca (Fazi Editore) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 21 giugno.</span><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Mi
serve il suo aiuto – Mi dica che posso fare – Devo scrivere un libro. Matos non
gliel’ha detto? – Mi ha detto che voleva parlare con uno scrittore – Mi serve
aiuto per scriverlo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Rubem
Fonseca (1925-2020) fa ricorso al classico espediente del “romanzo nel romanzo”,
in questo suo noir di esordio del 1973, trovando subito grande successo e
popolarità in Brasile e all’estero. Ora Il caso Morel viene pubblicato per la
prima volta in Italia, anche se certo non susciterà lo scandalo di
cinquant’anni fa.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Fonseca
fu effettivamente un ex commissario di Polizia che divenne scrittore, esattamente
come il suo personaggio Vivela, che incontra in carcere Paul Morel, artista
maledetto e trasgressivo, accusato di aver massacrato di botte una sua giovane
amante.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">A
mano a mano che Morel passa a Vivela le sue pagine, ne emerge un mondo torbido,
popolato da prostitute disperate, ricchi depravati, artistoidi frustrati, maniaci
sessuali. Morel racconta la sua versione dei fatti, fino al ritrovamento del
cadavere della ragazza. Ma chi l’ha uccisa? La polizia sembra non avere dubbi,
Vivela non è convinto e continua a indagare. Al momento del delitto, Morel
convive con tre donne e un bambino in una sorta di strampalata “famiglia”
poligamica e lussuriosa: una prostituta-madre, un’aspirante artista e una
contestatrice ribelle di origini borghesi. Il sesso domina su tutto il romanzo,
con descrizioni forti e crude.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Come
siete finite qui? – Abbiamo sentito che stasera ci sarebbe stato un casino da
urlo e siamo venute. Davvero non ti va di fare niente? – Nel frattempo Guilherme
si scopava Monica. Sono rimasto un po’ a guardarli e non mi è piaciuto affatto.
Decisamente non ero un voyeur. Che ne diresti di un sessantanove verticale? ha
detto Diana. Oggi no, sono a pezzi, le ho risposto”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Quando
Morel esaurisce il suo racconto, il romanzo si complica. Ai personaggi narrati
nel manoscritto subentrano quelli “veri”, ognuno con un nome diverso e con una
diversa versione dei fatti. Vivela procede a tentoni, in una Rio ricca e
degradata,<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>popolata da personaggi
ambigui. Fino alle ultime pagine, protagonista e lettori brancolano nel buio.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Al
contrario dell’opinione diffusa, pensare, guardare, agire in modo intensamente
e costantemente erotico non provoca un calo dell’impulso sessuale, né rende il
sesso qualcosa di molesto, faticoso o stomachevole – dice Gomes – Più mangiamo,
più mangiare ci piace e vogliamo farlo. Lo stesso accade con il sesso, non si
arriva mai a un punto di saturazione”.<o:p></o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-68994098657125172722023-06-09T00:18:00.000+02:002023-06-09T00:18:37.393+02:00In alto, di Thomas Bernhard (Guanda)<p>Qui di seguito, la mia recensione di "In alto", di Thomas Bernhard (Guanda) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.<span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Nella
sala delle udienze mi sento soffocare, esco, corro per le strade, il mio
articolo si fa sempre più conciso, un buon articolo su una storia sporca, sono
incapace di salutare, sono incapace di tutto, dopo aver scritto il mio articolo
un cieco furore mi spinge a correre per ore in città”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Thomas
Bernhard ha soli 28 anni, e in effetti collabora proprio come cronista
giudiziario con un giornale di Salisburgo, quando scrive questo “In alto”
(1959) romanzo giovanile che però vedrà la luce solo trent’anni più tardi, alla
morte dell’autore. Il volume presenta un sottotitolo che è tutto un programma,
“Tentativo di salvezza, nonsenso”: a posteriori, sembra il manifesto letterario
dell’introverso e scontroso scrittore austriaco. L’intera opera bernhardiana, infatti,
è caratterizzata da una congenita aporìa. I suoi romanzi si presentano come
tragedie annunciate, condanne senza appello, prigioni senza via di fuga. Qualsiasi
tentativo di salvezza appare insensato e vano.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“In
alto” è un romanzo senza trama, dal ritmo sincopato e rapsodico, che anticipa i
temi ricorrenti di Bernhard: l’isolamento claustrofobico, la nevrosi, l’incapacità
di comunicare, la predestinazione alla sconfitta, il suicidio. L’Io Monologante
di Bernhard qui si muove a tentoni, annaspa, si impunta, inveisce, ma il suo
malessere interiore è insormontabile.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Pensieri
si addensano nella mia mente e rifiutano di essere registrati, quanto vale un
pensiero registrato nel mio cervello? Emergono, affondano”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Bernhard
ricorre a una prosa allucinata, mediante un uso compulsivo della virgola, degli
stacchi, degli incisi, per rendere efficacemente il processo mentale erratico e
disturbato di un giovane uomo privo di equilibrio psichico. Anche i vari personaggi
che costellano la narrazione, non sono in realtà che interlocutori occasionali,
espedienti narrativi che consentono di descrivere, per contrasto, la
personalità solipsista del protagonista: “Ubbidire con la massa, distruggere
con la massa, annientare con la massa, colare a picco con la massa”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Non
mancano, in questo romanzo giovanile, espliciti riferimenti all’universo kafkiano:
“Anch’io dunque devo comparire davanti a un tribunale, devo comparire davanti a
un’intera corte di giustizia, mi cercherò il tribunale più severo che esiste,
un tribunale che mi distrugga finché non resti più nulla di me, il tribunale
emetterà il giudizio <i>che mi spetta</i>, si riunirà a porte chiuse e mi
assegnerà a un porcile, un porcile per uomini, destinato a creature della mia
specie”.<o:p></o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-37219430794219232442023-05-25T18:20:00.002+02:002023-05-25T18:21:36.755+02:00"Alzarsi", di Helga Schubert (Fazi Editore)<p> Qui di seguito, la mia recensione di "Alzarsi", di Helga Schubert (Fazi Ed.) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.</p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">“Sono
figlia della guerra, figlia profuga, figlia della Germania divisa. Ancora oggi,
trent’anni dopo il 9 novembre 1989, dallo scompartimento del treno vedo il
confine di allora in tutta la sua concretezza, nella striscia della morte i
cespugli e gli alberi sono ancora più giovani, piantati soltanto DOPO. Il 9
novembre 1989 ero alle soglie dei cinquanta e non avevo ancora mai espresso un
voto libero. Potrei raccontare quella giornata come testimone davanti a un
tribunale: che cosa ho visto e sentito e pensato. Prima e anche nel tempo che è
seguito. Ora per questo non esiste più un tribunale terreno: Tranne l’omicidio,
tutto è caduto in prescrizione”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">Nata
a Berlino nel 1940, orfana di padre a due anni, profuga con la madre a quattro,
Helga Schubert narra con prosa malinconica e un uso personalissimo della
punteggiatura, la propria autobiografia di scrittrice nel mondo opprimente e
invasivo della DDR.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">Schubert
racconta dei permessi di recarsi all’estero, e dei suoi ostinati e puntuali
rientri, “di là dalla cintura minata”. Nell’80 riceve nella Repubblica federale
il premio Ingeborg Bachmann, nell’83 il premio Fallada, prestigiosi
riconoscimenti che è costretta a rifiutare. Legge i rapporti che i solerti spioni
<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>governativi redigevano sul suo conto. Dopo
la caduta del Muro, il funzionario incaricato per quattordici anni di seguire
il suo dossier, le chiede scusa, dicendo di provare vergogna e rimorso. Ma afferma
di non avere mai temuto linciaggi o ritorsioni, perché aveva capito che le
persone sorvegliate non volevano altra violenza, solo un ordine politico e
sociale diverso.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">“Il
Muro non c’è più. Il Muro non c’è più, era scritto sul muro di sbarramento.
Come si fa, una cosa del genere, anche solo a pensarla”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">Accanto
a queste ricostruzioni, riaffiorano i ricordi dolci delle trasferte in campagna
della nonna, ma soprattutto gli scontri con la personalità dura e anaffettiva
della madre, la vera figura dominante del libro, tratteggiata con sentimenti
contrastanti di affetto e rancore.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;">“Ho
compiuto tre imprese eroiche che ti riguardano. La prima: non ti ho abortito,
anche se tuo padre voleva che lo facessi (…) La seconda: quando siamo fuggite
dalla Pomerania a Greifswald, ti ho spinta in una carrozzina a tre ruote fino
allo sfinimento. E la terza: quando i russi sono entrati a Greifswald, non ti
ho avvelenato né sparato. Tuo nonno pretendeva da me che mi avvelenassi o mi
sparassi (…) Allora dovrei prima uccidere mia figlia, ho detto io a tuo nonno,
ma non posso farlo. Quindi ti ho lasciata vivere”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 115%;"><span style="mso-spacerun: yes;"> </span><o:p></o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-23239387816510055322023-04-20T19:08:00.002+02:002023-04-20T19:09:30.973+02:00"Il poeta e il combattente", di Joseph Harmatz (Rubbettino)<p> Qui di seguito, la mia recensione di "Il poeta e il combattente - La lotta segreta degli ebrei lituani", di Joseph Harmatz (Rubbettino) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.</p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Il
23 settembre 1943 il diciottenne Joseph Harmatz, nome di battaglia Julek, fugge
attraverso le fogne dal ghetto di Vilnius e si unisce alla resistenza lituana nelle
foresta.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Davvero
una vita epica e straordinaria, quella del combattente Harmatz, indissolubilmente
legato all’amico e compagno di lotta Abba Kovner, poeta e scrittore fra i più
celebrati nella storia di Israele. A molti anni distanza dal Male Assoluto,
ormai anziano, il protagonista decide di tornare sui luoghi dell’orrore:
accompagnato dal figlio, viaggia attraverso i tre paesi baltici, dove ogni toponimo
evoca eventi abominevoli, che tutti dovrebbero conoscere e ricordare.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Dei
duecentomila ebrei lituani, più di 136.000 sono assassinati nei primi cinque
mesi di occupazione tedesca, nel secondo semestre del ’41, per lo più fucilati
nelle foreste circostanti ai “campi di lavoro” e sepolti in grandi fosse comuni,
per mano anche di molti scrupolosi collaborazionisti autoctoni.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">A
Vilnius, gli ebrei sono rinchiusi nel ghetto. Molti anni dopo Kovner,
testimoniando al processo Eichmann, dirà che tutti loro sentivano di scontare
un “triplice isolamento”: la separazione fisica imposta dai nazisti, l’odio antisemita
degli ex vicini di casa e, oltre ancora, l’indifferenza del mondo intero. Harmatz,
pur giovanissimo, capisce che il destino è segnato e decide di ribellarsi,
arruolandosi fra i resistenti. Kovner esorta gl ebrei a non farsi portare come
pecore al macello, si crea una dolorosissima frattura fra i combattenti e lo <i>Judenrat</i>
(il Consiglio ebraico) che si illude di poter salvare almeno alcune vite,
trattando con il comando tedesco. Una divisione abilmente pilotata dai nazisti,
fino alla liquidazione totale del ghetto.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Joseph,
proprio per aver scelto l’opzione più rischiosa, si salva, mentre i suoi due
fratelli scompaiono inghiottititi dalla Shoah. Anche la madre è deportata, il
figlio la crede morta ma miracolosamente la ritroverà a guerra finita e “saliranno”
insieme in Israele. Mentre si realizza il sogno sionista, Harmatz e altri danno
vita al gruppo dei Vendicatori: il progetto di avvelenare l’acquedotto di
Norimberga fortunatamente non va a buon fine, altri tentativi avventati
svaniscono con poche conseguenze.<o:p></o:p></span></p><p>
<span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin;">Il combattente si dedica
allora a compiti civili: lavora nella Compagnia elettrica palestinese, poi nell’Agenzia
ebraica e nel Mossad. Organizza l’emigrazione clandestina degli ebrei dal Nord
Africa in Israele, nel ’56 è a Ginevra ad aiutare le comunità ebraiche in pericolo
in tutto il mondo. Una storia di dolore, rivolta, riscatto, ricostruzione e
speranza. </span></p><p><br /></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-67532946844816697882023-03-19T12:18:00.000+01:002023-03-19T12:18:14.812+01:00Il Gesù di Dreyer<p> Qui di seguito, la mia recensione del libro "Gesù. Il film di una vita", di Carl Theodor Dreyer (Iperborea) apparsa ieri a pagina 2 del quotidiano Il Foglio.</p><p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Già
nel corso degli anni Trenta, il grande regista danese Carl Theodor Dreyer
concepisce l’idea di un film sulla figura di Gesù. Il progetto si rafforza nel
corso dell’occupazione nazista della Danimarca, con la suggestiva equiparazione
fra gli antichi dominatori romani e i malvagi invasori del presente.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Dreyer
scrive una minuziosa sceneggiatura - poi più volte rimaneggiata - e dopo la
guerra firma un contratto con il produttore americano Blevins Davis, un personaggio
inaffidabile. Il regista è succube dell’impresario, la sceneggiatura resta sulla
carta. Dopo sedici anni di continui rinvii, finalmente nel 1967 Dreyer si
svincola e accetta l’offerta della Rai di produrre il film per la televisione
italiana. Di nuovo egli lavora al testo, ma l’anno dopo muore senza essere
riuscito a realizzare il suo progetto più ambizioso.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Ora
Iperborea pubblica la sceneggiatura nella versione “lunga” del 1950 (424
pagine, 19,50 euro): un libro imperdibile per gli amanti del cinema, ricco di indicazioni
registiche, descrizioni sceniche, dettami su stacchi, primi piani e dissolvenze.
Paragonato alle più celebri versioni di Rice-Webber, Zeffirelli e Pasolini,
quello di Dreyer è soprattutto un Gesù ebreo, cioè fortemente contestualizzato
nell’ebraismo del suo tempo, rispetto al quale mostra una sorta di nervosa
insofferenza e un’irriducibile alterità. Il Gesù di Dreyer è provocatorio e quasi
magico nel distribuire i miracoli, con grande entusiasmo del popolo e sgomento
dei farisei, sconcertati dalla enigmatica ambivalenza delle sue risposte. Quando
è contestato sul piano dottrinario e teologico, i toni non sono mai aspri. Le
reazioni dei dottori della legge sono scettiche, increduli, solo raramente scandalizzate.
Gli ebrei riconoscono in Gesù uno di loro, che agisce per il bene; i cospiratori
politici invece sono irritati e delusi, perché egli non guiderà alcuna rivolta
contro Roma.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">In
più di una circostanza, Dreyer si prende delle importanti licenze
drammaturgiche. La figura di Maria compare una sola volta, in sinagoga. Gesù ha
fatto un miracolo di sabato, i fratelli lo rimproverano di dare scandalo e di
gettare il discredito sulla famiglia. Maria non comparirà più, nemmeno durante
la crocefissione. La stessa via crucis è “filmata” in solitudine, con poche
eccezioni. La sceneggiatura si conclude con la morte del condannato: Dreyer non
accenna neppure marginalmente a un’ipotesi di resurrezione. Inoltre, tutti i
miracoli di Gesù, minuziosamente descritti, sono accompagnati da incisi di carattere
medico e scientifico (o pseudo-scientifico) volti a fornire una spiegazione
razionalistica e positivistica dei fatti narrati: una scelta che obiettivamente
indebolisce la sceneggiatura e costituisce l’elemento più discutibile dell’opera.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">Obiettivo
dichiarato dell’autore è di scagionare gli ebrei da qualsiasi responsabilità,
diretta o indiretta, nella messa a morte di Gesù, che invece deve essere
interamente intestata ai romani (esplicitamente paragonati, come abbiamo detto,
ai nazisti).<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;">“Pilato:
E’ a causa di questo…. (<i>studia il papiro che ha in mano e continua</i>)
…Gesù di Nazareth che vi ho chiamati. Forse voi crederete che io non sappia ciò
che accade in questa città, ma state pur certi che non è così. Gli uomini al
mio servizio non sono né ciechi né sordi. Questo… (<i>deve consultare ancora
una volta il papiro prima di continuare</i>) … Gesù di Nazareth è stato
sorvegliato accuratamente per mesi. Niente mi è ignoto e io sono informato… di
tutto (<i>con enfasi</i>). Quest’uomo deve essere eliminato prima della festività;
non si può attendere oltre. Non intendo correre rischi. Capito?”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="line-height: 115%; margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 115%;"><o:p> </o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-11260055435496188472023-02-09T00:11:00.003+01:002023-02-09T00:14:41.552+01:00"L'Ucraina in 100 date", di Giulia Lami (ed. Della Porta)<p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; text-align: justify;">Qui di seguito, la mia recensione di "L'Ucraina in 100 date", di Giulia Lami (ed. Della Porta) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 1 febbraio.</span></p><p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;">“La
storia a volte accelera all’improvviso, spariglia le carte in tavola, obbliga a
scelte rapide, che richiedono coraggio e determinazione. Ne sanno qualcosa gli
ucraini, che un mattino si sono trovati davanti l’invasore e hanno optato per
resistere”.</span></p><p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;">Giulia
Lami, docente di Storia dell’Europa orientale e autrice di numerosi saggi di
storia e cultura russa e ucraina, sceglie di concentrare in 100 date, poco più
di 200 pagine, il lungo e travagliato percorso di un antico popolo. Ne sortisce
un</span><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"> </span><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;">saggio agile, interessante, denso e
completo, utilissimo per capire il presente.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Dalla
fine del X secolo fino alla metà del XIII, la Rus’ di Kyiv dominava su un
vastissimo territorio, mentre Mosca era un centro minore. Il 1240 è l’anno
fatidico dell’invasione dei Mongoli, che distruggono la capitale e sciolgono il
regno.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Secoli
dopo, è l’elemento cosacco il nuovo protagonista politico e militare, che getta
le basi dell’identità nazionale ucraina (“Siamo di stirpe cosacca”, recita oggi
l’ultimo verso dell’inno nazionale). L’alleanza con l’infida Moscovia (1654) si
rivelerà fatale. Dalla spartizione fra russi e polacchi nasce il dualismo fra
una parte orientale del paese, dominata da Mosca, e una parte occidentale
(Rutenia, Galizia, Bucovina) sotto l’egemonia europea. Nell’800, sono Nikolaj Gogol’,
ma soprattutto Taras Shevchenko (1814-1861) poeta e padre della lingua, a
gettare le basi del risorgimento culturale nazionale. E’ Shevchenko che
coscientemente sceglie, per la sua terra, la denominazione di ‘Ucraina’.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14pt; line-height: 106%;">Con
la guerra e la rivoluzione bolscevica, arrivano gli anni peggiori. Stalin
sopprime dapprima la classe colta (la “Rinascita fucilata”) poi stermina i
contadini: dei sei milioni “affamati a morte” (<i>holodomor</i>) almeno due
terzi erano ucraini. Seguono la tragica epopea dell’occupazione nazista, il
ritorno di Stalin e la normalizzazione. Libertà e indipendenza arriveranno solo
con il crollo del comunismo. Per tre volte (1990, 2004, 2013) ‘Majdan’ diventa
il simbolo dell’Ucraina democratica che guarda all’Europa per sottrarsi al
plurisecolare giogo russo.</span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: left;">“Dopo aver visto quale
complesso di eventi gli ucraini dovettero affrontare, desta stupore che siano
riusciti a creare governi nazionali, a dotarli di truppe, a difenderli da
aggressioni interne ed esterna, a creare istituzioni amministrative e
culturali, ad abbozzare una struttura statuale, a promulgare leggi, ad attuare
riforme, a perseguire obiettivi di unificazione e di recupero di terre
‘irredente’ (…) La storia dell’Ucraina non è una storia di statualità debole,
ma di statualità negata”. </span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-56970020743389236642023-01-22T00:05:00.000+01:002023-01-22T00:05:27.298+01:00L'insensata idea di negare l'ebraicità di Gerusalemme<p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;"><i>Qui di seguito, la mia recensione di "Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia Contesa", di Yitzhak Reiter e Dvir Dimant (Ed. Guerini)</i></span></p><p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt; text-align: justify;">La
recente visita del ministro della sicurezza di Israele, Itamar Ben Gvir, sulla
Spianata delle Moschee, con le prevedibili reazioni rabbiose del mondo
arabo-musulmano e i consueti “appelli alla prudenza” delle timorate cancellerie
occidentali, ha reso di grande attualità la disputa politico-religiosa sulla ebraicità
di Gerusalemme.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
questo contesto, capita a proposito il bel saggio di due autorevoli studiosi
israeliani, Yitzhak Reiter e Dvir Dimant, intitolato appunto “Il Monte del
Tempio – Ebraismo, Islam e la Roccia Contesa” e pubblicato in Italia da Guerini
nel novembre scorso.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nell’introduzione,
i due autori prendono le mosse dalla famigerata delibera Unesco del 2016 che,
in relazione a Gerusalemme, cita i luoghi religiosi della città, compreso il
Monte del Tempio e l’area prospicente al Muro del Pianto, unicamente con la
denominazione arabo-musulmana, indicandoli così implicitamente come luoghi
sacri all’Islam e ad esso soltanto. Quel testo, redatto da mani palestinesi e
giordane e poi presentato da sette Stati arabi, costrinse la direttrice Unesco
dell’epoca, Irina Bokova, a riconoscere che la delibera “arrecava un danno al popolo
ebraico”. In realtà l’Unesco, nel suo passato, aveva già all’attivo una lunga
serie di interventi e prese di posizione ostili a Israele.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nel
primo capitolo si analizzano minuziosamente le fonti islamiche antiche, dalle
prime versioni scritte del Corano alla copiosa letteratura medioevale classica,
un consistente <i>corpus</i> di testi, tutti caratterizzati dal preciso riconoscimento
delle radici ebraiche del Tempio, costruito due volte dagli ebrei e due volte
distrutto - la prima dai babilonesi, la seconda dai romani.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Gli
stessi conquistatori musulmani di Gerusalemme riconobbero appieno la sacralità
per gli ebrei del Monte del Tempio, in coerenza con il Corano e con una pletora
di commentari successivi, che ne fanno esplicito riferimento come luogo ebraico:
insomma “la narrazione storica adottata dai musulmani recepiva la consueta
narrazione storica biblica”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
secondo e terzo capitolo analizzano invece le fonti islamiche contemporanee. La
maggior parte è tesa a negare l’ebraicità del Monte del Tempio (e financo la
sua stessa esistenza) all’evidente fine della delegittimazione storica,
politica e religiosa di Israele; una minoranza invece ne riconosce il carattere
ebraico, ma si dedica a un’estrema minimizzazione di questo legame.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Tra
gli scritti presi in considerazione, alcuni mostrano di ignorare le fonti
classiche, altre di negarne l’autenticità o l’attendibilità. Secondo questo
composito fronte negazionista, il Monte del Tempio sarebbe una “cospirazione
sionista”, oppure “non si trovava in Palestina”, gli ebrei contemporanei non
sarebbero discendenti dagli antichi israeliti e così via, con tesi sempre più bizzarre,
fino a sostenere che “Abramo, Davide e Salomone sono figure islamiche”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Contraddizioni
a parte, tutte queste teorie finalizzate a colpire Israele, attraverso la più
tipica eterogenesi dei fini producono però un effetto perverso: si rivelano un formidabile
<i>boomerang</i> per le fondamenta stesse della religione musulmana.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Sulla
base di tutta la teologia islamica, infatti, “l’Islam è da considerarsi una
continuazione della fede monoteistica di Abramo, sì che le personalità della <i>Bibbia
Ebraica</i> e del <i>Nuovo Testamento</i>, alcune delle quali trovano menzione
nel Corano, fanno parte della storia islamica”. Se così non fosse, non si
capirebbe come mai nel 692 i conquistatori musulmani avrebbero deciso di
costruire proprio lì, sulle rovine del Tempio ebraico, la magnifica Cupola
della Roccia. In realtà, concludono Reiter e Dimant, essi “si proponevano di
fondare l’Islam in quanto successivo e legittimo stadio dello sviluppo storico
di santificazione del monoteismo”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
altre parole, negando l’ebraicità di Gerusalemme e del Monte del Tempio, il
mondo arabo-musulmano contemporaneo mostra di voler segare il ramo dell’albero
sul quale esso stesso è seduto da secoli.<o:p></o:p></span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-12065928563196629942022-12-21T19:34:00.001+01:002022-12-21T19:34:53.944+01:00Dove non mi hai portata, di Maria Grazia Calandrone (Einaudi)<p>Qui di seguito, la mia recensione di Dove non mi hai portata, di Maria Grazia Calandrone (Einaudi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di oggi.</p><p>
</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“Lucia,
invece, fa i numeri del circo e il padre la insegue col fucile lungo il corso
principale del paese. Altri genitori legano le figlie ribelli a un albero coperto
di formiche e le lasciano lì tutta la notte, per piegare la loro volontà a matrimoni
indesiderati”.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Ancora
negli anni Cinquanta – dunque in un’epoca non poi così lontana – era normale
che nelle campagne abruzzesi una ragazza da marito fosse caricata di legnate e
persino minacciata di morte dal padre, per essere costretta a sposarsi con un
uomo insulso e impotente, considerato lo scemo del paese, in cambio di un
terreno limitrofo alla proprietà della famiglia di lei.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Dimostrando
una forza d’animo davvero ammirevole, a oltre cinquant’anni dai fatti, Maria
Grazia Calandrone trova il coraggio di esplorare la misera storia che porta al
suicidio congiunto dei suoi genitori, che si lasciano affogare nel Tevere
nell’estate del ’65, dopo aver abbandonato la loro bambina di otto mesi in un
prato di Villa Borghese.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Ne
sortisce una biografia di sconfinata amarezza e ingiusto dolore, un procedere
difficile, indaginoso, disturbante, appena attenuato dalla dolcezza di alcune testimonianze.
L’autrice, poetessa pluripremiata, scrive con penna malinconica e toccante: la
poesia si impone in molti passaggi, la stessa prosa si adagia spesso
nell’endecasillabo.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Tutto
è incentrato sulla figura disperata e tragica di Lucia, per sette anni bloccata
in un matrimonio neppure consumato. La famiglia di origine la respinge, la
famiglia di adozione, offesa del rifiuto iniziale, la maltratta e la affama.
Lucia, ridotta a una schiava, è costretta a mendicare qualcosa dai vicini; lui
la spinge con il forcone, come si usa con i maiali. Tutto il paese sa, e tace.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
circostanze casuali, Lucia si lascia sedurre da Giuseppe, capomastro di 56
anni, sconcertato di trovarla illibata. I due fuggono. Come per tutti i
meridionali in cerca di riscatto, Milano è al contempo un traguardo e un
miraggio. Lei ha il pancione, lui è ormai anziano, il “miracolo economico”
significa anche licenziamenti, lavoro nero, indigenza, povertà assoluta. Anche
la nascita di Maria Grazia è occasione di mortificazione, discriminazioni,
rifiuti: la legge italiana di quegli anni è un incubo, per un’adultera. Lucia e
Giuseppe si arrendono, stanchi delle troppe sofferenze e ingiustizie patite nel
corso di una vita grama.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Scrive
Maria Grazia alla madre sconosciuta: “Spero che mentre te ne vai, Lucia,
risenti le campane della festa, che fanno piovere larghezza e fiori sulla
campagna ancora addormentata. Spero che finalmente ti riposi”.<o:p></o:p></span></p><br /><p></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-71446182224158890242022-11-28T15:16:00.004+01:002022-11-28T15:16:45.116+01:00Due libri di Antonia Arslan<p>Qui di seguito, l'articolo a mia firma pubblicato a pagina 2 del quotidiano Il Foglio di giovedì 24 novembre.</p><p></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><b>LUCI NELLA TRAGEDIA. Fare memoria del genocidio armeno affinché non si ripeta. Due libri di Antonia Arslan.</b></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">A
diciotto anni dall’uscita del suo capolavoro, </span><i style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">La masseria delle allodole</i><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">,
Antonia Arslan torna a indagare sul destino tragico della sua famiglia, massacrata,
deportata e dispersa nel corso del genocidio armeno. Che fine ha fatto Aghavnì?
Solo dall’incontro con un lontano cugino, e a partire dal ritrovamento di una
vecchia fotografia, riemerge dal passato una verità dimenticata, ora trasposta
in un breve romanzo (</span><i style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">Il destino di Aghavnì</i><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;">, Edizioni Ares, 120 pagine) dalla
penna delicata e sensibile della scrittrice contemporanea italiana più tradotta
nel mondo.</span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nella
Piccola Città dell’Anatolia centrale, in “giorni calamitosi”, una famigliola – la
donna, suo marito Alfred, il vivace Garò e la piccola Zabel – scompare nel
nulla. I quattro sono usciti di casa a piedi, diretti all’abitazione di zia
Annette, dove però non sono mai arrivati. Nessuna traccia, nessun testimone. Le
due importanti famiglie, angosciate, si riuniscono in consiglio per valutare il
da farsi, ma dall’incontro emerge solo la necessità di nuove informazioni. Non
si sa a chi rivolgersi: delle autorità non c’è da fidarsi, e anche ungendo
qualche funzionario, non si ottiene nulla; i turchi in strada sono omertosi, si
fingono partecipi, ma sanno cosa bolle in pentola e già adocchiano la loro
parte di bottino. Di lì a poco, tutti gli armeni saranno spazzati via e le loro
case saccheggiate.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">In
realtà, un testimone rivela che Aghavnì e i suoi sono stati rapiti dai curdi:
una sorte orribile, che però vale a sottrarli allo sterminio. La vita nella
tribù curda è dura, umiliante, oppressiva, chi tenta di fuggire paga con la
vita; ma anche nelle circostanze più avverse, la forza insopprimibile e
dirompente del messaggio cristiano riuscirà a riemergere, e a inoculare nei
cuori più duri un germe di speranza e di pace.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">La
conclusione, così fortemente intrisa di spirito religioso, è possibile anche
grazie alla figura simbolica di Selim il fabbro, il cui vero nome Torkom, un
profugo armeno originario della valle di Mush. Questo personaggio rappresenta
l’elemento di collegamento con un altro romanzo breve della Arslan, <i>Il libro
di Mush</i> (150 pagine) apparso una prima volta nel 2012 e ripubblicato
quest’anno da Bur-Rizzoli, con una nuova prefazione dell’autrice.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Quest’altra
opera racconta, sempre in forma romanzata, la vicenda del salvataggio di uno
dei più antichi e preziosi manoscritti armeni, l’Omiliario di Mush (il Libro
dei Sermoni) ricco di miniature finissime e disegni pregiati. Si tratta di una
raccolta di omelie composta fra il 1200 e il 1202, su commissione di un devoto
mercante. La preziosa reliquia fu effettivamente custodita dai monaci di Surp
Arakelots, nella valle di Mush, per sette secoli.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nel
romanzo, uno sparuto gruppo di sopravvissuti armeni – due giovani donne, un
bambino e una coppia di greci, su cui veglia un Angelo muto – ritrova il sacro
volume fra le macerie del monastero distrutto, e con una lunga marcia verso il
Caucaso, fra infinite vicissitudini, riesce a portarsi da Mush a Erzurum, fino
a Etchmiadzin, nel territorio sotto il controllo russo, dove le autorità
religiose armene metteranno in salvo il prezioso carico. Oggi l’Omiliario di
Mush, il più grande manoscritto armeno esistente, è esposto nella grande
biblioteca di Yerevan, testimone della cancellazione di un popolo millenario
dalle sue terre d’origine.<o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nelle
settimane scorse, il presidente/dittatore turco Recep Tayyip Erdogan, dimentico della
favola del lupo e dell’agnello, ha accusato gli armeni di “genocidio” - proprio
così - nei confronti degli azeri, per quanto accaduto nel Nagorno Karabagh.
Grandi nuvole nere tornano ad addensarsi nei cieli sopra l’Armenia. <o:p></o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p>
<p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;"><o:p> </o:p></span></p><br /><p></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-44949785419513840052022-10-28T12:52:00.000+02:002022-10-28T12:52:28.143+02:00Il lupo di Skopje, di Annick Emdin (Astoria)<p> Qui di seguito, la mia recensione di Il lupo di Skopje, di Annick Amdin (edizioni Astoria) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 26 ottobre.</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Senza
esitare, d'istinto, Clémence si tuffa nell'acqua gelida e salva la vita a un
giovane che si è buttato nel fiume dall'alto di un viadotto. Lo rianima, lo
porta a casa, lo nutre. Ma il ragazzo, Jan, rapidamente si eclissa. Dopo
qualche giorno, Clémence lo ritrova in un vicolo squallido e malfamato, chiuso
in sé stesso e dedito al piccolo spaccio.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Nuovamente
la donna si offre di aiutarlo, gli lascia il suo recapito; lui mostra
indifferenza ma, contro ogni previsione, si presenta poi in cerca di ospitalità
e sostegno. Clémence e Davide sono una coppia di mezza età, in crisi e senza
figli, vivono in una bella casa in cui però manca da tempo l'armonia. I due decidono
di accogliere Jan come un figlio e di farsi carico dei suoi problemi: una
scelta che sconvolgerà drammaticamente la loro esistenza. <o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Clémence
è turbata. Ha 45 anni, si sente sola e trascurata dal marito, è frustrata
professionalmente e sessualmente. Ora la eccita la presenza del ragazzo, che
potrebbe essere suo figlio: si sente attratta, nutre pensieri inconfessabili e peccaminosi.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Chi
è in realtà Jan? Qualcosa di oscuro si nasconde nel suo passato. Ha l'aspetto
tipico del giovane balcanico, un lupo solitario disadattato e asociale. Ha soltanto
17 anni, ma con l'aria del duro, cresciuto troppo in fretta e abituato a vivere
nei guai. Jan è cinico, strafottente, impunito, anche se sotto la scorza rivela
un cuore sensibile, una spiccata intelligenza e un disperato bisogno d'amore.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">"L’unica
cosa che è rimasta a me è il coltello. E’ un bellissimo coltello, a
serramanico. (…) Quando tiri fuori il coltello ci sono quelli che arretrano e
quelli che no. In generale se non arretrano vuol dire che ce l’hanno pure loro,
il coltello. Ho usato il coltello contro una persona sei volte. Cinque per
ferire, per spaventare. Una volta sola, per uccidere”.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Jan
è l'unico personaggio a esprimersi in prima persona, con visioni allucinate e tratti
autistici. Con lo scorrere delle pagine, dalla lontana Macedonia emerge una
storia di sfruttamento, sopraffazione e disperazione; un ambiente degradato,
dove sesso e prostituzione sono gli ingredienti quotidiani di una vita dura e
violenta. Il testimone narrativo passa da
un personaggio all'altro, da Skopje all'Italia, avanti e indietro nel tempo, in
un crescendo avvincente e drammatico.<o:p></o:p></span></p><p>
<i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin;">Il lupo di Skopje</span></i><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin;"> è un tipico romanzo di
formazione, un racconto corale, a più voci, come già il precedente <i>Io sono
del mio amato</i> (2020) lavoro d’esordio della Emdin: anche in questo caso,
non mancano i messaggi positivi, la voglia di riscatto, la speranza. </span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2666736564119951602.post-6545868698992713842022-10-26T11:07:00.002+02:002022-10-26T11:07:11.693+02:00La fornace, di Thomas Bernhard (Adelphi)<p>Qui di seguito, la mia recensione di La fornace, di Thomas Bernhard (Adelphi) apparsa a pagina 2 del quotidiano Il Foglio di giovedì 20 ottobre.</p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Come
tutti i romanzi di Bernhard, anche <i>La fornace</i> - uscito nel 1970 e ora ripubblicato
da Adelphi - prende le mosse da un fatto tragico e definitivo: Konrad, il tormentato
e nevrotico protagonista, ha ucciso la moglie inferma sparandole a bruciapelo
con un fucile da caccia. Non c’è scampo, non c’è salvezza, per i personaggi
bernhardiani: sono contrassegnati in partenza da un’aporia, un finale preannunciato
e ineludibile, e sono destinati a soccombere. Il lettore lo sa, dalle prime
righe.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Il
resto del romanzo non è che la rappresentazione minuziosa e ripetitiva, martellante,
di una duplice ossessione: la fornace innanzitutto, ambiente lugubre e kafkiano,
freddo e vuoto, ansiogeno come nessun altro, con le sbarre alle finestre e le
porte sprangate; e lo stesso Konrad, un uomo che racchiude in sé alcuni fra i
peggiori difetti dell’essere umano.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Konrad
è nevrotico e forse anche psicotico, è vessatorio e maniacale, frustrato da una
fissazione che lo tormenta da decenni: la stesura di un saggio sull’udito, del
quale ha a malapena concepito il sommario, ma che sostiene di avere “tutto
nella testa”. Ovviamente, egli imputa a fattori esterni (luoghi, persone) la
sua incapacità/impossibilità di scrivere, per questo tortura la moglie con
esperimenti estenuanti e terribili. A tratti la consapevolezza sembra farsi
strada in lui, ma la coazione a ripetere ha sempre il sopravvento, e conduce all’atroce
epilogo.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“La
nostra meta era la fornace, la nostra meta era la morte attraverso la fornace (…)
questo non poteva che condurre prima alla disperazione, poi all’inaridimento
mentale e affettivo, e infine alla malattia e alla morte”.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">Questo
ambiente, e questa fissazione, sono il romanzo stesso. Nei lavori di Bernhard, si
illude chi crede di rintracciare una trama, una storia. “Io sono un tipico
distruttore di storie”, disse di sé in un’intervista l’autore austriaco. Nell’anno
della scomparsa (1989) Aldo Gargani scrisse che l’intera opera di Bernhard
“rappresenta la più potente e drastica domanda di senso del nostro tempo (…)
una spirale espressiva nella quale senso e non senso, verità e menzogna, realtà
e finzione risultano inestricabilmente intrecciati, come dannati compagni di
viaggio di un’ossessione mortale”. <i>La fornace</i> compendia bene questo
giudizio.<o:p></o:p></span></p><p class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0cm; text-align: justify;"><span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%;">“La
loro vita in comune era stata uno sbaglio sin dall’inizio, ma, a essere
sinceri, avrebbe detto Konrad a Fro, quale vita in comune non è sbagliata,
quale matrimonio non è completamente sbagliato, insensato, e quindi, una volta avvenuto,
non diventa insincero, spaventoso, quale amicizia non è inganno, quante fra le
persone che convivono possono dire in tutta sincerità di essere felici o
perlomeno di essere ancora sé stesse?”<o:p></o:p></span></p><p>
<span style="font-family: "Times New Roman",serif; font-size: 14.0pt; line-height: 106%; mso-ansi-language: IT; mso-bidi-language: AR-SA; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin;">Nel rappresentare la follia
di Konrad, Thomas Bernhard - considerato forse il maggiore scrittore di lingua
tedesca della seconda metà del Novecento - trova anche lo spazio per
un’autocitazione: “Mi rimandava a quel suo connazionale che fa lo scrittore, il
quale, a leggere i suoi scritti, non poteva che sembrare un pazzo che scrive,
mentre era proprio tutto il contrario di un pazzo”.</span></p>Alessandro Litta Modignanihttp://www.blogger.com/profile/06184231918097634440noreply@blogger.com0