giovedì 22 settembre 2022

Abbandono, di Elisabeth Asbrink (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di Abbandono, di Elisabeth Asbrink (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.

Dopo il bellissimo 1947 (Iperborea, 2018) Elisabeth Asbrink torna a catturare il cuore del lettore, stavolta con un libro schiettamente autobiografico.

Abbandono è la storia difficile e dolorosa di tre donne – Rita, Sally e Katherine – cioè la nonna e la madre dell’autrice, e l’autrice stessa.

Rita, figlia di immigrati tedeschi di umilissime origini, incontra a Londra un uomo dal nome affascinante, Vidal Coenca. Se ne innamora, aspetta un bambino. Lui reagisce freddamente: promette di farsene carico, ma rifiuta di sposarla, perché è ebreo. Proviene da una tradizionale famiglia sefardita di Salonicco, spezzerebbe il cuore alla madre e subirebbe l’ostracismo della comunità.

Ancor più di Rita, sarà sua figlia Sally a soffrire le conseguenze di questo rifiuto. La ragazzina mostra insofferenza nei confronti del padre, presente solo saltuariamente; si sente indifesa di fronte all’antisemitismo montante (siamo all’epoca del movimento fascista inglese di Oswald Mosley) e si ribella all’acquiescenza della madre. Sally fugge in Svezia, dove incontra e sposa - ecco la coazione a ripetere - un ebreo ungherese scampato alla Shoah. Il matrimonio sarà un completo fallimento.

Toccherà dunque a K. la Guerriera, dopo un’infanzia orribile a causa delle continue crisi di nervi della madre, che le impedisce di vedere e persino di nominare il padre, la dura opera di ricostruzione della vicenda familiare e di ricerca delle sue radici ebraiche.

“Ci vuole una buona dose di oblio, per poter vivere. Ma la rimozione è altro, rispetto all’oblio (…) La vera follia è lasciare che l’oblio prenda il sopravvento. Chi non vuole ricordare perde sé stesso, e allora restano solo le menzogne”.

Abbandono diventa così, nella terza parte, anche la storia tragica degli ebrei sefarditi, dalle prime stragi alle persecuzioni dell’Inquisizione, alla cacciata dalla Spagna del 1492, all’approdo e insediamento a Salonicco, fino alla completa cancellazione - cinque secoli dopo – dovuta alla Shoah. Dei 49.000 ebrei deportati, ne sopravviveranno solo 800.

Nella sua sofferta indagine, Katherine rinviene le lapidi di marmo, ricavate dallo sbancamento del cimitero sefardita di Salonicco, deciso ancor prima della deportazione dalle autorità locali greche. Greche, non naziste. Ancora oggi, quelle lapidi – opportunamente rovesciate - servono a lastricare le chiese, il teatro, la pavimentazione della piazza, persino i cessi pubblici della città, cio che induce la terza protagonista a chiudere il suo racconto con le parole definitive: “Io non perdono”.