venerdì 28 ottobre 2022

Il lupo di Skopje, di Annick Emdin (Astoria)

 Qui di seguito, la mia recensione di Il lupo di Skopje, di Annick Amdin (edizioni Astoria) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 26 ottobre.

Senza esitare, d'istinto, Clémence si tuffa nell'acqua gelida e salva la vita a un giovane che si è buttato nel fiume dall'alto di un viadotto. Lo rianima, lo porta a casa, lo nutre. Ma il ragazzo, Jan, rapidamente si eclissa. Dopo qualche giorno, Clémence lo ritrova in un vicolo squallido e malfamato, chiuso in sé stesso e dedito al piccolo spaccio.

Nuovamente la donna si offre di aiutarlo, gli lascia il suo recapito; lui mostra indifferenza ma, contro ogni previsione, si presenta poi in cerca di ospitalità e sostegno. Clémence e Davide sono una coppia di mezza età, in crisi e senza figli, vivono in una bella casa in cui però manca da tempo l'armonia. I due decidono di accogliere Jan come un figlio e di farsi carico dei suoi problemi: una scelta che sconvolgerà drammaticamente la loro esistenza.

Clémence è turbata. Ha 45 anni, si sente sola e trascurata dal marito, è frustrata professionalmente e sessualmente. Ora la eccita la presenza del ragazzo, che potrebbe essere suo figlio: si sente attratta, nutre pensieri inconfessabili e peccaminosi.

Chi è in realtà Jan? Qualcosa di oscuro si nasconde nel suo passato. Ha l'aspetto tipico del giovane balcanico, un lupo solitario disadattato e asociale. Ha soltanto 17 anni, ma con l'aria del duro, cresciuto troppo in fretta e abituato a vivere nei guai. Jan è cinico, strafottente, impunito, anche se sotto la scorza rivela un cuore sensibile, una spiccata intelligenza e un disperato bisogno d'amore.

"L’unica cosa che è rimasta a me è il coltello. E’ un bellissimo coltello, a serramanico. (…) Quando tiri fuori il coltello ci sono quelli che arretrano e quelli che no. In generale se non arretrano vuol dire che ce l’hanno pure loro, il coltello. Ho usato il coltello contro una persona sei volte. Cinque per ferire, per spaventare. Una volta sola, per uccidere”.

Jan è l'unico personaggio a esprimersi in prima persona, con visioni allucinate e tratti autistici. Con lo scorrere delle pagine, dalla lontana Macedonia emerge una storia di sfruttamento, sopraffazione e disperazione; un ambiente degradato, dove sesso e prostituzione sono gli ingredienti quotidiani di una vita dura e violenta. Il testimone narrativo passa da un personaggio all'altro, da Skopje all'Italia, avanti e indietro nel tempo, in un crescendo avvincente e drammatico.

Il lupo di Skopje è un tipico romanzo di formazione, un racconto corale, a più voci, come già il precedente Io sono del mio amato (2020) lavoro d’esordio della Emdin: anche in questo caso, non mancano i messaggi positivi, la voglia di riscatto, la speranza. 

mercoledì 26 ottobre 2022

La fornace, di Thomas Bernhard (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di La fornace, di Thomas Bernhard (Adelphi) apparsa a pagina 2 del quotidiano Il Foglio di giovedì 20 ottobre.

Come tutti i romanzi di Bernhard, anche La fornace - uscito nel 1970 e ora ripubblicato da Adelphi - prende le mosse da un fatto tragico e definitivo: Konrad, il tormentato e nevrotico protagonista, ha ucciso la moglie inferma sparandole a bruciapelo con un fucile da caccia. Non c’è scampo, non c’è salvezza, per i personaggi bernhardiani: sono contrassegnati in partenza da un’aporia, un finale preannunciato e ineludibile, e sono destinati a soccombere. Il lettore lo sa, dalle prime righe.

Il resto del romanzo non è che la rappresentazione minuziosa e ripetitiva, martellante, di una duplice ossessione: la fornace innanzitutto, ambiente lugubre e kafkiano, freddo e vuoto, ansiogeno come nessun altro, con le sbarre alle finestre e le porte sprangate; e lo stesso Konrad, un uomo che racchiude in sé alcuni fra i peggiori difetti dell’essere umano.

Konrad è nevrotico e forse anche psicotico, è vessatorio e maniacale, frustrato da una fissazione che lo tormenta da decenni: la stesura di un saggio sull’udito, del quale ha a malapena concepito il sommario, ma che sostiene di avere “tutto nella testa”. Ovviamente, egli imputa a fattori esterni (luoghi, persone) la sua incapacità/impossibilità di scrivere, per questo tortura la moglie con esperimenti estenuanti e terribili. A tratti la consapevolezza sembra farsi strada in lui, ma la coazione a ripetere ha sempre il sopravvento, e conduce all’atroce epilogo.

“La nostra meta era la fornace, la nostra meta era la morte attraverso la fornace (…) questo non poteva che condurre prima alla disperazione, poi all’inaridimento mentale e affettivo, e infine alla malattia e alla morte”.

Questo ambiente, e questa fissazione, sono il romanzo stesso. Nei lavori di Bernhard, si illude chi crede di rintracciare una trama, una storia. “Io sono un tipico distruttore di storie”, disse di sé in un’intervista l’autore austriaco. Nell’anno della scomparsa (1989) Aldo Gargani scrisse che l’intera opera di Bernhard “rappresenta la più potente e drastica domanda di senso del nostro tempo (…) una spirale espressiva nella quale senso e non senso, verità e menzogna, realtà e finzione risultano inestricabilmente intrecciati, come dannati compagni di viaggio di un’ossessione mortale”. La fornace compendia bene questo giudizio.

“La loro vita in comune era stata uno sbaglio sin dall’inizio, ma, a essere sinceri, avrebbe detto Konrad a Fro, quale vita in comune non è sbagliata, quale matrimonio non è completamente sbagliato, insensato, e quindi, una volta avvenuto, non diventa insincero, spaventoso, quale amicizia non è inganno, quante fra le persone che convivono possono dire in tutta sincerità di essere felici o perlomeno di essere ancora sé stesse?”

Nel rappresentare la follia di Konrad, Thomas Bernhard - considerato forse il maggiore scrittore di lingua tedesca della seconda metà del Novecento - trova anche lo spazio per un’autocitazione: “Mi rimandava a quel suo connazionale che fa lo scrittore, il quale, a leggere i suoi scritti, non poteva che sembrare un pazzo che scrive, mentre era proprio tutto il contrario di un pazzo”.