domenica 12 novembre 2023

La suite di Giava, di Jan Brokken (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di La suite di Giava, di Jan Brokken (Iperborea) apparsa sul quotidiano Il Foglio di mercoledì scorso.

Jan Brokken ritrova e rilegge le lettere che sua madre Olga scrisse in gioventù alla sorella, durante gli anni del soggiorno in Indonesia. Prendendo le mosse da questo spunto narrativo, l’autore di Anime baltiche riscopre un capitolo semi-sconosciuto della vita dei genitori, e torna a riflettere sul passato coloniale olandese. La suite di Giava è anche un racconto musicale: Brokken si decide a scrivere dopo l’ascolto radiofonico del brano I giardini di Buitenzorg (titolo originale del libro) del compositore polacco Leopold Godowskij - che poi si scoprirà essere un ebreo lituano: un’altra “anima baltica” che popola l’affollata galleria dell’autore olandese. Nelle lettere della madre, quel brano è associato al frusciare degli alberi dell’orto botanico indonesiano in cui aveva vissuto giorni felici.

I genitori di Brokken, novelli sposi, nel 1935 sbarcano a Giava, colmi di speranza e di spirito d’avventura. Lui è un pastore protestante, con l’ambizione di cristianizzare gli abitanti dell’arcipelago; lei una donna colta, industriosa, ottimista e vitale.

“Nella città vigeva una forma di apartheid. A Makassar c’era un quartiere europeo dove vivevano anche i cinesi facoltosi, un quartiere cinese povero pieno di case da gioco e fumerie d’oppio, un quartiere buginese vicino al porto, un quartiere ambonese e diversi kampung makassari”.

Diviso fra isole maggiori e minori, l’Indonesia è una babele di lingue e dialetti, un problema con cui la giovane coppia sa misurarsi con successo durante tutto il lungo periodo di soggiorno.

“Ma anche se l’utilizzo della lingua ci ha evitato di vagare al di fuori dell’immaginario nativo, c’era un altro rischio da cui dovevamo guardarci, e cioè dall’intervenire salendo in cattedra. La tendenza degli europei a salire in cattedra con i nativi è assai discutibile; bacchettare il nativo e riempirlo di rimproveri per gli europei è un diritto”.

Il momento più intenso e drammatico del libro è dato dall’occupazione giapponese, quando tutti i cittadini olandesi vengono arrestati e rinchiusi in duri campi di prigionia. Olga racconta lo choc provato, nel vedere le donne locali inveire contro di loro, e prendere a sassate i camion stipati di donne olandesi, con le quali avevano vissuto in armonia fino a pochi giorni prima. Dopo la guerra scrive:

“Nel campo ho imparato cos’è un mondo senza Dio e senza giustizia. Non so più bene cosa ci facciamo qui. E’ il paese più bello del mondo, mi piacerebbe rimanere qui per sempre, in giustizia però, e su una base di rispetto; e temo che ciò non sia più possibile”.