Qui di seguito, il testo integrale della mia recensione di "Verga - Breve la stagione felice", di Elio Gioanola (Jaca Book) pubblica sul quotidiano Il Foglio di sabato 15 giugno.
Dura appena un decennio la “stagione felice” di Giovanni Verga. Gli
anni dal 1878 al 1889 sono quelli della creatività letteraria, per il maggiore
scritore italiano della seconda metà dell’Ottocento. Né prima né dopo, l’autore
siciliano riesce a produrre alcunché di significativo; anzi, secondo la critica
di Elio Gioanola, già nel secondo e ultimo romanzo – il Mastro Don Gesualdo – egli
“mostra tutti i segni di un’irresistibile
decadenza”.
Il giovane Verga debutta con testi tardo-romantici, del tutto
trascurabili, poi è il “borghese quasi aristocratico che si lascia andare ai
ricordi di una povera ragazza siciliana”, con il racconto “Nedda”, che segna
una svolta, sia pure inconsapevole. La novelle di “Vita dei campi” lo impongono
all’attenzione del grande pubblico, compresa la celebre “Cavalleria rusticana”
che sarà rappresentata a teatro da Eleonora Duse e poi messa in musica da Mascagni.
Fra l’80 e l’85 Verga scrive tutti i racconti migliori e il suo massimo
capolavoro, “I Malavoglia”, l’apice della sua carriera di scrittore. Dirà
l’amico Capuana con ammirazione: “I Malavoglia sono la più completa opera
d’arte che si sia pubblicata in Italia dai Promessi Sposi in poi”.
“Definire Verga pessimista come Leopardi, è dire nulla”, avverte
Gioanola, e altrettanto può dirsi della teoria di una sua presunta
“conversione” al verismo. In realtà, la carriera letteraria dimostra che per
Verga “extra Siciliam nulla salus”. Solo nella terra d’origine lo scrittore
riesce a esprimersi, a identificarsi con l’umanità che osserva, a “rompere con
le nostre tradizioni letterarie impostate sulla pedanteria”. Per la prima volta
viene presentata un’umanità miserabile e tuttavia rassegnata al proprio
destino, nelle forme di un’immedesimazione che supera, con difficoltà e
resistenze interiori, le differenze di livello fra chi fra chi racconta e chi è
raccontato.
Ma Verga non si accontenta, vuole ostinatamente scrivere il “ciclo dei
Vinti”, una serie di cinque romanzi: gli altri tre non vedranno mai la luce. Proprio
questa ossessione, per lui irraggiungibile, lo porterà alla sterilità e al
definitivo silenzio, fino alla morte nel 1922. Gioanola stronca con durezza la
gran parte dei critici letterari di stampo marxista (da Petronio a Luperini, ad
Asor Rosa e altri) ed esrpime sul “Mastro” non poche riserve. Egli giudica il testo
“pieno di lungaggini e difetti”, e parla di “contrasto irriducibile” fra il
lirismo del primo romanzo e il disegno narrativo del secondo, che presenta
“momenti stanchi e persino annoiati”, fino a giudicare Verga un autore sostanzialmente
“provinciale”. Critiche forse eccessive, per uno scrittore che disse di sé: “Ho
cercato sempre di essere vero, senza essere né realista né idealista né
romantico”.
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