lunedì 17 giugno 2019

Verga - Breve la stagione felice


Qui di seguito, il testo integrale della mia recensione di "Verga - Breve la stagione felice", di Elio Gioanola (Jaca Book) pubblica sul quotidiano Il Foglio di sabato 15 giugno.


Dura appena un decennio la “stagione felice” di Giovanni Verga. Gli anni dal 1878 al 1889 sono quelli della creatività letteraria, per il maggiore scritore italiano della seconda metà dell’Ottocento. Né prima né dopo, l’autore siciliano riesce a produrre alcunché di significativo; anzi, secondo la critica di Elio Gioanola, già nel secondo e ultimo romanzo – il Mastro Don Gesualdo – egli “mostra tutti i segni  di un’irresistibile decadenza”.
Il giovane Verga debutta con testi tardo-romantici, del tutto trascurabili, poi è il “borghese quasi aristocratico che si lascia andare ai ricordi di una povera ragazza siciliana”, con il racconto “Nedda”, che segna una svolta, sia pure inconsapevole. La novelle di “Vita dei campi” lo impongono all’attenzione del grande pubblico, compresa la celebre “Cavalleria rusticana” che sarà rappresentata a teatro da Eleonora Duse e poi messa in musica da Mascagni. Fra l’80 e l’85 Verga scrive tutti i racconti migliori e il suo massimo capolavoro, “I Malavoglia”, l’apice della sua carriera di scrittore. Dirà l’amico Capuana con ammirazione: “I Malavoglia sono la più completa opera d’arte che si sia pubblicata in Italia dai Promessi Sposi in poi”.
“Definire Verga pessimista come Leopardi, è dire nulla”, avverte Gioanola, e altrettanto può dirsi della teoria di una sua presunta “conversione” al verismo. In realtà, la carriera letteraria dimostra che per Verga “extra Siciliam nulla salus”. Solo nella terra d’origine lo scrittore riesce a esprimersi, a identificarsi con l’umanità che osserva, a “rompere con le nostre tradizioni letterarie impostate sulla pedanteria”. Per la prima volta viene presentata un’umanità miserabile e tuttavia rassegnata al proprio destino, nelle forme di un’immedesimazione che supera, con difficoltà e resistenze interiori, le differenze di livello fra chi fra chi racconta e chi è raccontato.
Ma Verga non si accontenta, vuole ostinatamente scrivere il “ciclo dei Vinti”, una serie di cinque romanzi: gli altri tre non vedranno mai la luce. Proprio questa ossessione, per lui irraggiungibile, lo porterà alla sterilità e al definitivo silenzio, fino alla morte nel 1922. Gioanola stronca con durezza la gran parte dei critici letterari di stampo marxista (da Petronio a Luperini, ad Asor Rosa e altri) ed esrpime sul “Mastro” non poche riserve. Egli giudica il testo “pieno di lungaggini e difetti”, e parla di “contrasto irriducibile” fra il lirismo del primo romanzo e il disegno narrativo del secondo, che presenta “momenti stanchi e persino annoiati”, fino a giudicare Verga un autore sostanzialmente “provinciale”. Critiche forse eccessive, per uno scrittore che disse di sé: “Ho cercato sempre di essere vero, senza essere né realista né idealista né romantico”.



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