giovedì 13 novembre 2025

"Pioggia di stelle", di Matila Ghyka

Qui di seguito, la mia recensione di "Pioggia di stelle", romanzo di Matila Ghyka (Blu Atlantide) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri.

“Hitler è evidentemente il tipico visionario attivo; non solo è riuscito ad allucinare sé stesso, ma anche una buona parte della Germania (…) Vi ricordate della leggenda del suonatore di flauto di Hamelin, che stregò tutti i bambini della cittadina e partì con loro? Un bel giorno i tedeschi seguiranno il flauto magico di Hitler, e Dio sa cosa ne verrà fuori”.

Pubblicato per la prima volta in Francia da Gallimard nel 1933, proprio nell’anno di ascesa al potere del nazismo, Pioggia di stelle è un romanzo storico, ambientato a Vienna nel periodo fra le due guerre, l’unico di Matila Ghyka (1881-1965). Diplomatico romeno di nobili origini, coetaneo di Stefan Zweig e come quest’ultimo legato per sempre a un “mondo di ieri” in dissoluzione, Ghyka fu una personalità di notevole fascino e carisma, caratteristiche trasfuse nel romanzo attraverso il personaggio di Napoleon di Maleen-Louis, protagonista di grande cordialità ed empatia.

Dopo il crollo dell’impero asburgico, il povero Napoleon se la passa assai male: vive in miseria, ha venduto persino il cappotto, è oberato dai debiti. Triste e malinconico, ripensa con nostalgia ai fasti del suo periodo londinese, ricco di feste da ballo, ricevimenti principeschi, ristoranti di alta classe e circoli esclusivi. Medita di ritirarsi in campagna, quando un incontro improvviso e provvidenziale gli offre l’opportunità di rientrare nel corpo diplomatico.

Ghyka descrive un mondo sofisticato e aristocratico, di quel particolare tipo di nobiltà che si è dedicata anima e corpo alla diplomazia, con i suoi riti e le sue regole scritte e non scritte – soprattutto queste ultime, in un ambiente in cui l’etichetta esercita un incontestabile primato.

Ne scaturisce un romanzo colto e raffinato, che è anche una storia d’amore a lieto fine, con tanto di principesse e cavalieri. La trama romantica è costellata di lunghe digressioni, dotte citazioni, divagazioni artistiche e letterarie, accurate descrizioni di castelli e paesaggi. Non manca la precisa ricostruzione di vicende storiche e di grandi personaggi del passato, uno su tutti il celebre duca di Wallenstein protagonista della Guerra dei Trent’anni.

Naturalmente, sotto la superficie delle amabili conversazioni da fumoir, spiccano serissime considerazioni politiche, alcune molto amare, altre sorprendentemente profetiche, sapientemente distribuite nel testo da uno scrittore che fu grande testimone del suo tempo:

“E poi, come dicevo prima, il principio delle nazionalità forse evolverà, si trasformerà in qualcosa di molto elastico, forse Stati Uniti d’Europa, non sappiamo…”.

Guido Ceronetti, che amava molto Ghyka, lo definì “uno dei grandi romeni contemporanei e il meno conosciuto”.

venerdì 10 ottobre 2025

"Breve storia dell'economia", di Giorgio Arfaras (Salani)

Qui di seguito, la mia recensione di "Breve storia dell'economia", di Giorgio Arfaras (Salani) apparsa stamane in seconda pagina sul quotidiano Il Foglio, con il titolo "It's the economy..."

 “Sarà mia cura provare a rendere chiari i meccanismi fondamentali senza fare ricorso a concetti troppo complessi, anzi vorrei riuscire ad avvicinare questa materia ai lettori, evidenziando i punti di contatto, anche in questo caso, con la vita quotidiana”.

Un anno dopo Filosofi e tiranni, Giorgio Arfaras - originalissimo economista con una passione speciale per il pensiero politico – propone al pubblico non specializzato una Breve storia dell’economia (Salani) brillante e riuscito tentativo di illustrare in poco più di 200 pagine “quante cose della vita spiega l’economia e come entra nella vita quotidiana di tutti noi”.

La parola “diseguaglianza” si presta a qualche fraintendimento, spiega l’autore. La crescita della diseguaglianza, infatti, può essere il frutto del maggior tenore di vita assoluto dei meno abbienti, che però cresce meno di quello dei più abbienti. In altre parole, i meno abbienti sono diventati più ricchi, i più abbienti ancora più ricchi. Negli ultimi secoli, è precisamente questa la modalità di crescita della diseguaglianza che si è avuta in tutti i paesi industrializzati.

Con la rivoluzione industriale, prosegue Arfaras, si afferma il “capitalismo”, cioè un sistema economico dove le innovazioni sono sviluppate dagli imprenditori. La crisi del ’29 è la “pietra d’inciampo” del primo capitalismo dell’8-900, il boom del secondo dopoguerra invece inciampa nella stagflazione degli anni Settanta. A partire dai primi anni ’80 e fino al 2008 prevale il pensiero neo-liberista, i cui risultati però l’autore definisce “sfuggenti”: i tassi di crescita nell’era della globalizzazione sono circa la metà di quelli registrati nei decenni del dopoguerra. Al contempo, sorge il populismo.

Negli ultimi decenni, la sofisticazione dell’economia ha creato una maggiore uguaglianza fra gli uomini e le donne, quando sono entrambi molto istruiti, e una maggiore diseguaglianza fra i molto istruiti e quelli che non lo sono. E’ l’economia della conoscenza: “Il capitalismo si sta diffondendo in modo molecolare nella vita di tutti i giorni”. Le persone ambiziose lasciano le città e le zone meno dinamiche, in cui non nascono nuove imprese, e si trasferiscono in città più dinamiche: “il fenomeno è internazionale”.

Con l’avvento del populismo, la parte meno colta e più povera dell’elettorato si ribella: non ai ricchi, ma alle regole della democrazia. Il disagio all’origine del populismo è economico o culturale? Se fosse solo di natura economica, risponde Arfaras, dovrebbe sgonfiarsi con la crescita dell’economia. In realtà il rifiuto riguarda anche i cambiamenti nella morale, la libertà sessuale e altri fattori di frustrazione.

Anche sull’immigrazione, Arfaras sfata alcuni luoghi comuni: “E’ difficile immaginare che con lo sviluppo economico dei paesi d’origine, l’immigrazione possa fermarsi”.

I paesi in via di sviluppo sono quelli che mostrano maggiore concentrazione della ricchezza, che raggiunge in media il 50% della ricchezza complessiva. Viceversa nei paesi sviluppati la media è del 15% circa. Il paese con la minore concentrazione della ricchezza è la Germania, quello con la più alta la Russia.

Lo sviluppo cinese ha avuto caratteristiche simili a quelle dell’Urss degli anni Trenta: urbanizzazione accelerata dei contadini e scolarizzazione di massa. Il risultato è che l’élite cinese oggi è composta per un terzo da ingegneri. Le famiglie cinesi risparmiano molto per l’assenza dello Stato sociale: “La domanda cruciale, economica ma alla fine politica, diventa: lo Stato sociale e un settore finanziario sofisticato, sono compatibili con un sistema a partito unico come quello cinese?”.

Se la Cina consuma poco, l’America consuma troppo, dunque è costretta a importare. Come reagire? Non occorre molto a capire che i dazi non funzioneranno, prevede Arfaras. “Un recupero del debito statunitense e quindi un recupero del credito degli altri, soprattutto dei cinesi, richiede un cambiamento epocale del sistema economico e politico cinese e statunitense. Da qui lo scetticismo a riguardo di una soluzione indolore e a breve termine”. 

giovedì 2 ottobre 2025

"La notte ucraina", di Marci Shore (Castelvecchi)

Qui di seguito, la mia recensione di "La notte Ucraina. Storie da una rivoluzione", di Marci Shore (Castelvecchi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri, mercoledì 1 ottobre. Abbiamo presentato questo libro, sempre ieri, presso il circolo The Mill di via Cappuccio 5 a Milano. Relatrici Olivia Guaraldo (curatrice) Elena Kostioukovitch e Giulia Lami. L'autrice è intervenuta in collegamento da Toronto.

 “Era meraviglioso, perché sul Maidan c’erano persone molto diverse – ucraini, russi, ebrei, polacchi, tartari, armeni e azeri, c’erano georgiani, ucrainofoni, russofoni, c’erano neonazisti, liberali e anarchici… nel momento del pericolo tutti si sono uniti e le differenze non contavano più”. Così la storica Marci Shore, docente prima a Yale e ora a Toronto, descrive la rivoluzione ucraina di Maidan, nei mesi a cavallo fra il  2013 e il 2014.

La notte ucraina è la vivida cronaca di un momento decisivo della storia contemporanea europea, ricostruito attraverso le testimonianze di molti protagonisti. Non un’analisi strettamente politica, quanto piuttosto un’indagine attorno al vissuto individuale delle persone, nel cuore pulsante della rivoluzione stessa.

Alla vigilia degli avvenimenti, l’Ucraina è un paese corrotto e avvilito. La cleptocrazia di Janukovic – un presidente con precedenti penali per rapina - spadroneggia con la sua cricca di mafiosi. Quando cerca di far saltare le trattative con l’Europa, per suggellare il suo rientro nell’orbita putiniana, succede qualcosa di imprevisto. Il 28 novembre, il brutale pestaggio di un gruppo di studenti provoca una mobilitazione spontanea e di massa che ha dell’incredibile. Centinaia di migliaia di persone, di ogni età, estrazione sociale e  orientamento politico, accorrono da tutto il paese nella capitale, affollano Maidan e manifestano ininterrottamente, giorno e notte, per quasi tre mesi nel rigido inverno ucraino.

Lo scontro è sanguinoso, perché la scelta della piazza è di resistere e di difendersi con tutta la durezza necessaria. Dopo gli scontri, ogni mattina i manifestanti puliscono fino all’ultimo pezzetto di carta. Sulla piazza la regola è che non si beve. Di sera le donne distribuiscono minestra calda e preparano le molotov.

Il 16 febbraio Janukovic vara le leggi dittatoriali. Con i media occidentali, sostiene che Maidan è piena di fascisti e antisemiti, ai suoi reparti antisommossa racconta che pullula di gay ed ebrei. Entrano in azione i cecchini, che sparano dai tetti: i morti si contano a decine, ma la piazza resiste e respinge ogni ipotesi di accordo. Il 23 febbraio Janukovic fugge a Mosca. Alla fine il bilancio è di 106 morti, che verranno soprannominati “La Centuria Celeste”. L’Ucraina rinasce sulla base di un rinnovato patriottismo civico, la società ha ritrovato il suo fondamento morale.

“Putin ci vuole come nell’ex Unione sovietica. (…) Lui ci sta riportando lì, vuole essere un dittatore. E noi per contro, ci stiamo spingendo verso l’Europa, dove c’è la democrazia. (…) Se l’Ucraina perde, torneremo nell’Unione sovietica. Se vinciamo, avremo la democrazia, avremo un futuro, noi e i nostri figli. Io la vedo così”.

giovedì 11 settembre 2025

Bestiario artico, di Frank Westerman (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di Bestiario artico, di Frank Westerman (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di ieri, mercoledì 10 settembre.

“Il Paralithodes camtschaticus è l’unico granchio che trascorre i primi anni di vita in formazioni di migliaia di esemplari. Come rugbisti nella mischia, incrociano le chele gli uni con gli altri e si trasformano in anelli di un organismo superiore; si attaccano e creano un groviglio a forma di campana, un agglomerato di carapaci e chele che si muove lento, su una miriade di zampe”.

E’ un libro imperdibile per tutti gli appassionati di etologia, l’ultimo reportage di Frank Westerman, scrittore olandese autore di numerose opere di successo nel campo della saggistica narrativa. Il volume tratta di sette specie animali, alcune poco note, che abitano nell’estremo nord del mondo: il narvalo, il lemming, l’anguilla, l’oca colombaccio, l’orso polare, la renna, il granchio reale.

Bestiario artico non è solo un’opera di carattere scientifico e divulgativo. E’ anche un libro di storia, che racconta la vicenda avventurosa e tragica di Willem Barents, uno dei più leggendari esploratori di tutti i tempi, un Grande Olandese che ha dato il nome al mare più settentrionale del pianeta. Alla ricerca anch’egli di una nuova “Via della Seta”, Barents immaginò di arrivare alla Cina navigando verso est, illudendosi di poter costeggiare l’immensa Siberia, e perì con tutto l’equipaggio sulla sua nave intrappolata nel ghiaccio. Solo in questo secolo, in conseguenza del climate change, quella stessa rotta è divenuta effettivamente percorribile, e Barents ha avuto la sua rivincita postuma.

Il libro è ricco di aneddoti, digressioni, incontri, episodi storici, ricordi personali. Ne risulta un excursus divertente e piacevole, curioso e istruttivo, in cui non mancano considerazioni filosofiche e politiche di stretta attualità.

Il fondamentalismo animalista è amabilmente preso per i fondelli: “Se vi stupisce che il ‘bosco’ possa parlare, allora deve anche stupirvi che un presidente parli come se rappresentasse ‘la Francia’. Il primo giugno 2018 un gruppo di seguaci di Latour ha aperto all’Aia l’ambasciata del Mare del Nord, sul cui stemma figura una N formata da tre pesci”.

Come in altri suoi libri precedenti, Westerman non rinuncia a denunciare al lettore i crimini ambientali del comunismo sovietico, e racconta le tensioni, anche faunistiche, al confine fra la Norvegia membro della Nato e la Russia di Putin. Oltre a descrivere minuziosamente caratteristiche e problematiche delle sette specie, Westerman indaga sul difficile rapporto fra l’animale e l’uomo.

“Poco dopo, mentre ci riporta a Longyearbyen sul fuoristrada, Rafal ci offre il suo punto di vista sulla relazione uomo-orso: ‘Gli orsi polari uccidono una persona ogni dieci anni, noi uccidiamo due orsi l’anno. Stiamo ancora vincendo noi”. 

domenica 29 giugno 2025

"La sposa incatenata", di Chaim Grade (Giuntina)

Qui di seguito, la mia recensione di "La sposa incatenata", di Chaim Grade (Giuntina) pubblicata in seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di giovedì 12 giugno, con il titolo "Un mondo scomparso. Chaim Grade racconta il complicato rapporto fra l'ebraismo e la modernità".

“Sulla strada del ritorno, il cantore dice a Merl di chiamarsi Kalman Maytes. Di professione fa l’imbianchino, ma negli ultimi tempi non c’è lavoro. (…) Ha sentito le donne dire che è sola. Le vuole chiedere dov’è suo marito… Non è tornato dalla guerra? La guerra ormai è finita da così tanti anni, perché non va dai rabbini a chiedere il permesso di risposarsi? Lui è vedovo già da diversi anni e non può più sopportare la solitudine”.

A partire da La moglie del rabbino (2019) Giuntina ha dato il via alla pubblicazione in Italia delle opere del grande scrittore ebreo lituano Chaim Grade. Nato a Vilna in una famiglia ortodossa, Grade si sottrae alla soffocante rigidità del suo ambiente e prende parte attiva al processo di secolarizzazione del mondo askenazita. L’intera sua famiglia è soppressa nella Shoah, lui si salva in Unione sovietica. Successivamente emigra negli Stati Uniti, dove diviene uno dei più importanti autori di letteratura yiddish del XX secolo.

Dopo Fedeltà e tradimento (2021) ora è la volta di La sposa incatenata, romanzo bellissimo, avvincente, ricco di suspense e di continui colpi di scena. E’ la storia di una tipica disputa rabbinica, infinita e tormentosa, che finisce per sconvolgere, in un crescendo drammatico, l’intera comunità ebraica di Vilna, la “Gerusalemme del Baltico”.

“Non voglio entrare in questo genere di congetture domestiche – replica con rabbia rov Levi – Io mi attengo alla legge. L’opinione di rabbi Eliezer di Verdun è minoritaria. E la legge non la segue, poiché i pilastri della dottrina rabbinica sono contro di lui. E anche il giudice della via Polotsk è solo contro l’intero consiglio rabbinico di Vilna”.

Quella fra il più autorevole rabbino della città, che si oppone dogmaticamente, e il più modesto giudice del quartiere in cui abita Merl, che le concede il permesso di risposarsi mosso da compassione, non è la sola antinomia che attraversa il romanzo. Vi è anche quella, assai più moderna, fra una donna operosa, dal carattere aperto e solare, e l’odioso Morits, corteggiatore villano e sempre respinto, che tramuterà il suo scorno in gelosia, invidia e desiderio di vendetta.

Merl potrebbe infischiarsene dei rabbini e sposarsi laicamente, ma non vuole dare un dispiacere alla sua anziana madre, né vuole ritrovarsi in un matrimonio pessimo e infelice come quello delle due sorelle. A causa dell’ambiente rigido e tradizionalista che la circonda, la donna si ritrova “incatenata”, cioè  invischiata in una serie di regole assurde. Così lo scontro religioso interno al rabbinato si inasprisce e si estende.

“Rabbi, abbiate pietà di voi stesso, di vostra moglie e dei vostri figli, e fate ciò che i rabbini vi chiedono – Merl a stento rimane in piedi, vorrebbe gettarsi a terra e abbracciare le ginocchia di rov Doved – Mi sono separata da mio marito e non intendo sposarmi con nessun altro. Ero un’agunà e tornerò a esserlo“. “Non vi ho dato il permesso per farvi un favore, ma perché così dice la legge della Torà”, è la replica del rabbino alla donna.

La calunnia comincia a serpeggiare fra gli ebrei di Vilna e si trasforma in un fiume in piena. Il popolino si lascia abbindolare, la gelosia rode l’anima, anche le persone più pure perdono la reputazione. Nell’incalzare degli avvenimenti, la commedia si trasforma in dramma, il dramma in tragedia.

La sposa incatenata parla di un mondo antico e scomparso, ma è anche un romanzo psicologico, di eccezionale modernità proprio per la capacità dell’autore di scavare nell’animo dei protagonisti, alla ricerca di pensieri fra i più inconfessabili e reconditi. Un libro incentrato sul difficile rapporto fra ebraismo e modernità, tradotto dall’yiddish da tre esperti di assoluto valore.

Pochi anni dopo gli avvenimenti romanzati da Grade, gli ebrei orientali e le loro tradizioni millenarie saranno espulsi dall’umanità, brutalmente e per sempre.

 

 


venerdì 23 maggio 2025

"La scoperta dell'Olanda", di Jan Brokken (Iperborea)

Qui di seguito, la mia recensione di "La scoperta dell'Olanda", di Jan Brokken (Iperborea) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 21 maggio.

 “L’Hotel Spaander è fallito. Colpa del Covid”. Comincia con queste desolate parole il nuovo viaggio nel passato di Jan Brokken, che stavolta ci conduce nella cattolica Volendam, per molti decenni cuore pulsante dell’impressionismo olandese ed europeo, a cavallo dell’Otto-Novecento.

Grazie a un geniale imprenditore e alla sua impareggiabile consorte, a partire dal 1881 l’Hotel Spaander si rivela il perfetto crocevia di una miriade di artisti, che vi trovano il luogo ideale per la loro creatività e i loro bagordi.

“Dall’esterno l’hotel non ha niente di particolare: un edificio signorile davanti, un ostello sul retro. Ma con undici atelier al pianterreno e soprattutto esposti a nord, quindi con la luce ideale al mattino, era perfetto per gli artisti”. Spaander invia cartoline con vedute di Volendam alle accademie di tutta Europa, si reca a Londra per entrare in contatto con altri artisti, appende all’ingresso il ritratto di un pittore con la scritta “Benvenuto, artista”. Una volta al mese, i coniugi offrono una sontuosa cena a tutti gli ospiti, e una grande festa da ballo.

“Gli artisti che frequentavano l’Hotel Spaander arrivavano da ogni parte d’Europa e, alla fine, da tutto il mondo. In totale si stabilirono a Volendam ben 1863 artisti – pittori, incisori, scultori, illustratori, fotografi – di cui 1461 provenienti dall’estero. E ben 1400 di loro presero alloggio allo Spaander”.

Fra i tanti ospiti illustri, un raffinato Marcel Proust nota una delle figlie di Spaander, Wilhelmina, e la definisce “deliziosa”. Nel 1905, costei posa nuda per Picasso: dopo infinite peripezie, nel 1959 “La Belle Hollandaise” sarà battuto da Sotheby’s a Londra per 55.000 sterline, la cifra più alta mai sborsata fino a quel momento per un artista vivente.

“All’Hotel Spaander si contemplano insieme urbanità e decadenza – scrive Brokken - Marken era povera, austera, piccola, bigotta, protestante; la cattolica Volendam era mondana. All’epoca si diceva che a Marken si prendeva la tubercolosi e a Volendam la sifilide”.

La guerra porta discordia fra gli ospiti dello Spaander, fra i quali si contano moltissimi tedeschi e austriaci. Agli inizi degli anni Venti muta il vento: tragedie familiari e cambi generazionali trasformano l’albergo in una pittoresca meta turistica. Volendam continua ad attirare le più celebri personalità da tutto il mondo, ma dal punto di vista artistico e culturale la “mania dell’Olanda” è ormai acqua passata.

La scoperta dell’Olanda” non è solo un bel racconto. Il volume è anche un vero e proprio libro d’arte, in cui sono riprodotte circa 70 opere, meno note di altre ma tutte di altissimo livello qualitativo. Anche sotto questo profilo, lo stile di Brokken si conferma superlativo. 

domenica 27 aprile 2025

Storia e oblio del Genocidio Armeno

Qui di seguito, la mia recensione di "Non ti scordar di me. Storia e oblio del Genocidio Armeno", di Vittorio Robiati Bendaud (Liberilibri) pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di venerdì 25 aprile.

Il genocidio armeno e quello ebraico sono strettamente interconnessi: quanto più si risale alle origini dell’uno, tanto più si trovano elementi comuni con l’altro. Con un approccio particolare e originale, Vittorio Robiati Bendaud offre una interpretazione “religiosa” di entrambe le grandi tragedie del Novecento.

“Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno” (Liberilibri, 180 pagine,18 euro) è un saggio di carattere “pionieristico”, scrive Antonia Arslan nella postfazione; possiede cioè un carattere “inedito”, e forse offre “la giusta chiave per lucchetti che attendevano di essere aperti”.

Anche se Metz Yeghern (il “Grande Male”, così gli armeni chiamano la cancellazione del loro popolo) è stato realizzato dal nazionalismo laico dei Giovani Turchi e poi ultimato da Ataturk, le sue radici lontane affondano nell’istituto islamico della dhimma, lo status di sottomissione cui gli armeni (come gli ebrei e altre minoranze cristiane) erano sottoposti da secoli nell’ambito dell’impero ottomano.

“Solo l’archetipo misogino – scrive Bendaud –  basato sulla subalternità della donna dominata al maschio dominante, spiega e rende tristemente ben evidente nel sistema politico-religioso della dhimma il significato di parole quali protezione, fedeltà, infedeltà, ribellione, arroganza, nonché l’unilateralità assoluta di tali giudizi”.

Analogamente, la Shoah avviene fattualmente per mano dei nazisti, ma scaturisce dalla sedimentazione di un substrato plurisecolare di antigiudaismo cristiano.

Centrali, nell’analisi di Bendaud, sono gli studi dello storico tedesco Stefan Ihrig e della filosofa cattolica americana Siobhan Nash-Marshall. Entrambi mettono in rilievo come l’anti-armenismo tedesco, di impronta schiettamente razzista, abbia preparato il terreno per l’odio antiebraico del nazismo. I grandi massacri degli armeni a fine Ottocento sono l’avvio del processo genocidario, e possono contare sulla piena copertura ideologica e politica della Germania guglielmina. Nel 1898 il Kaiser Guglielmo II si proclama a Damasco “amico  dei musulmani di tutto il mondo”, mentre gli intellettuali del Reich definiscono gli armeni “razza astuta e sediziosa” e propongono lo stereotipo dell’ “usuraio armeno”, fino alla definizione degli armeni come “super-ebrei”: un accostamento che ispirerà Adolf Hitler, anch’egli alla ricerca – come la nuova Turchia – di uno “spazio vitale” per il popolo tedesco e di una “soluzione finale” per una minoranza mostrificata.

Il saggio si conclude con riferimenti di strettissima attualità: “E’ individuabile un fil rouge nel modus operandi del dispotismo islamico – da Abdul Hamid II al contemporaneo Ilham Aliyev, dai Fratelli Musulmani a Hamas, dal tardo Ottocento ai giorni nostri (…): si tratta del ribaltamento della realtà e della sua mistificazione, raggiungendo livelli paradossali di menzogna”. E ancora: “L’indipendenza di questo antico popolo cristiano risulta insopportabile (…) Una situazione non dissimile da quanto accade a Israele: minuscolo nei fatti, ma enorme nell’ossessione di una soverchiante maggioranza arabo-islamica che si estende, sovrana e indiscussa, su territori immensi”.