martedì 18 marzo 2025

"Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo", di Diego Gabutti.

 Qui di seguito, la mia recensione di "Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo", di Diego Gabutti (Neri Pozza) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 12 marzo.

“Quello fu un momento unico. Mutui facili, affitti bassi, lavoro a tempo indeterminato, buone scuole, le vacanze, il tennis, le settimane bianche, soldi in tasca, Sex Revolution. Non s’era mai visto niente di simile nella storia del mondo”.

E’ divertente la galoppata con cui Diego Gabutti attraversa gli anni Ottanta, i “dieci anni che sconvolsero il mondo”. Un viaggio scanzonato e irriverente, con ampie escursioni dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, dal tono sarcastico e caustico, in un libro stracolmo di riferimenti filosofici, letterari, cinematografici e di costume.

Il decennio si apre idealmente con la vittoria a sorpresa di Ronald Reagan nelle elezioni americane, preceduta di un anno e mezzo da un episodio analogo: l’ascesa per la prima volta di una donna al governo della Gran Bretagna, Margaret Thatcher, altra protagonista indiscussa del cambio di paradigma. Anche in Italia, in ottobre, succede una cosa strana: la leggendaria Marcia dei Quarantamila, che a Torino seppellisce l’egemonia dei sindacati e chiude idealmente il lungo e violento ’68 nostrano. Il decennio “maledetto” e “reazionario” in realtà da noi vede la fine dell’egemonia democristiana, con la guida del governo assegnata prima a Giovanni Spadolini poi a Bettino Craxi.

In altra parte del mondo, nello stesso 1980, l’Unione sovietica invade l’Afghanistan, una scelta che si rivelerà catastrofica per le sorti del comunismo, al pari della decisione di puntare sulle capitali europee gli SS20, i nuovi missili nucleari a testata multipla. Ancora nel 1980 inizia il conflitto fra Iran e Iraq, che durerà quasi l’intero decennio, causando un milione di morti nella “Guerra Dimenticata”.

Sempre nell’80, in Polonia, il sindacato Solidarnosc manda in tilt il potere comunista; l’anno seguente il Papa polacco riuscirà miracolosamente a salvarsi da un oscuro tentativo di omicidio.

Gli anni Ottanta non sono solo rose e fiori: un mese dopo l’elezione di Reagan, John Lennon muore assassinato a New York; la morte per overdose di John Belushi (1982) chiude simbolicamente la stagione della cultura delle droghe, cha aveva caratterizzato le precedenti correnti underground; la scoperta dell’Aids segna la fine della festa per la generazione della Sex Revolution.

Il decennio dell’avvento al potere del computer si chiude con il crollo del Muro di Berlino e il fallimento planetario del comunismo. Ma “l’ombra del Muro di Berlino non si è ancora del tutto dissolta – avverte Gabutti – E’ un’ombra persistente, l’ombra della divisione del mondo, di qua l’Occidente (com’è sempre stato) e di là (com’è sempre stato) un minaccioso Eldorado metafisico. E’ il Muro mai abbattuto che separa le società libere da quelle fondate sull’arbitrio”.

lunedì 17 marzo 2025

"Kyiv. La fortezza sopra l'abisso", di Elena Kostioukovitch

Qui di seguito, la mia recensione di "Kyiv. La fortezza sopra l'abisso", di Elena Kostioukovitch (La Nave di Teseo) pubblicata il seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 12 marzo, con il titolo "Kyiv come una fortezza ma anche come un teatro. Per vite grandi e tragiche".

“Piani terribili. L’Europa sa bene di non avere garanzia reale contro questa sciagura. In realtà, l’Ucraina svolge il ruolo di fortezza per l’Europa, elevandosi al di sopra dell’abisso di menzogne e cinismo. L’altezza di Kyiv è anche un’altezza morale”.

Dopo aver indagato, con efficacia e non senza raccapriccio, “Nella mente di Putin” (La Nave di Teseo 2022) Elena Kostioukovitch racconta ora la sua città e la sua patria, in un libro di grande forza d’animo e di notevole valore storico, letterario e umano.

“Kyiv. La fortezza sopra l’abisso” è un piccolo gioiello di saggistica narrativa, un mix di autobiografia e micro-biografie, un pamphlet doloroso ma soprattutto un vibrante appello in difesa della frontiera orientale della civiltà europea.

Nel ricostruire la storia recente della capitale ucraina, l’autrice narra le vicende di alcune donne in fuga: un’anonima madre ferita, un’imperatrice, la sua bisnonna, sè stessa. Queste singole vite hanno per teatro grande e tragico la città di Kyiv, la sua architettura, le sue trasformazioni, le sue immani sciagure.

“Un’altra donna corre lungo via Shota Rustaveli, trascinando per mano la figlia. E’ la tarda estate del 1941 (…) Questa donna che corre, Raya, non cadrà all’ingresso del civico 23 e non morirà. Si salverà grazie alla propria determinazione e dieci anni dopo andrà in vacanza sul mar Nero con la figlia, già adolescente. La figlia è Vera, mia madre”.

Fra i molti protagonisti, largo spazio è dedicato alla figura di Mikhail Bulgakov, che – terrorizzato delle famigerate “perquisizioni” della polizia sovietica - lascerà Kyiv per trasferirsi a Mosca nel 1918. Bulgakov è figura controversa, avverte l’autrice: un grande scrittore che però sceglie, come Gogol nel secolo precedente, la lingua russa come modalità espressiva. Egli quindi resiste come può alla dittatura sovietica, ma non riconosce, nell’uso imposto di questa lingua, lo strumento coercitivo utilizzato per secoli dai moscoviti, ai fini della russificazione forzata dei popoli soggiogati.

“Anche nella mia famiglia – spiega Kostioukovitch – la ricca lingua russa è stata divinizzata e protetta in modo analogo. Viceversa, nella nostra cerchia nessuno si preoccupava, appunto, dell’ucraino. Oggi va detto che si trattava di una vera e propria cecità culturale. Ho vissuto un’epifania, ho cominciato a capire cosa sia in verità l’Ucraina soltanto nel 2014 e, ancora più tragicamente, nel 2022”.

Grandi protagonisti di “Kyiv” sono, inutile dirlo, Zelensky e gli eroici manifestanti di Maidan. Del presidente è minuziosamente descritta la straordinaria capacità comunicativa e anche psicologica, in particolare nelle prime fasi della guerra, quando al buio, sotto le bombe, con il viso illuminato solo dalla luce bluastra del telefonino, riesce a infondere calma e coraggio alla sua gente. Zelensky è un innovatore in politica e nel linguaggio, il più capace nel rappresentare la nuova Ucraina che resiste, nata nei mesi di lotta in piazza Indipendenza.

I giorni di Maidan sono narrati con forte partecipazione emotiva: alla violenza del governo filorusso si contrappone una piazza giovane, coraggiosa, piena di empatia e fantasia creativa. Lo scontro è durissimo, prolungato nel tempo, con molti morti, fino alla capitolazione e fuga a Mosca del corrotto Janukovych, il 23 febbraio del 2014.

Kostioukovich racconta del bisnonno fatto fucilare da Stalin con accuse infamanti, e dell’abominevole massacro nelle fosse comuni di Babyn Yar, nei dintorni della città, dove almeno centomila esseri umani furono trucidati con un colpo alla nuca dai nazisti, nella più grande strage di ebrei della Shoah svoltasi fuori dai campi di sterminio. Il libro si chiude con parole di speranza: “In nessun caso la ‘prigione dei popoli’ (espressione di Lenin) sarà ripristinata di nuovo, nonostante l’aggressione di Putin e le idee di tutti i politologi che per qualche motivo lo ascoltano. Né l’Urss né l’impero russo possono essere ripristinati (…) Nessuno toglierà all’Ucraina le ‘gesta’ che è già riuscita a compiere”.


giovedì 20 febbraio 2025

L'isola, di Sandor Marai (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di L'isola, romanzo di Sandor Marai (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 19 febbraio.

Quasi contestualmente all’uscita di Confessioni di un borghese, l’autobiografia in forma di romanzo di Sandor Marai, Adelphi ripubblica anche quest’opera minore del grande scrittore ungherese. L’isola (1934) è un romanzo difficile, introspettivo, così come chiuso e sofferente è il suo protagonista, Viktor Henrik Askenasi, un maturo e stimato docente di filologia in vacanza sulla costa dalmata, alla ricerca di “un posto tranquillo”, per tentare di riprendersi dal violento sbandamento psicologico ed emotivo in cui è precipitato.

L’intera prima parte del libro, a tratti incomprensibile, costituisce una sorta di lunga ambientazione, dove il personaggio principale e alcune comparse si muovono in un’atmosfera rarefatta, resa insopportabile dal caldo afoso e soffocante.

Dopo oltre 60 pagine, la svolta: Askenasi si rende improvvisamente conto (e con lui il lettore) della realtà che lo paralizza. “Giacque a lungo così, a occhi aperti. Poi, come se stesse dettando la propria confessione alla polizia, in tono netto e deciso pensò, sbarrando gli occhi nel buio: Ormai è emerso con certezza che, malgrado le mie migliori intenzioni, non riesco a vivere senza di lei. Che peccato”.

Cioè che risulta chiaro al lettore, risulta insostenibile per il personaggio. Questi ricorda, si interroga, si infervora, divaga, ricostruisce con ritmo rapsodico la propria ribellione alle regole della società e alla religione della famiglia. Askenasi ha trasgredito le leggi non scritte del decoro e della decenza, errori che pagherà dapprima con la perdita degli affetti, poi con la riprovazione generale, infine con una solitudine pericolosa e gravida di conseguenze. Nessuna via di fuga è realisticamente praticabile, perché alle sue domande esistenziali non vi è risposta alcuna.

“Viaggiare, immergersi nella ricerca, lavorare più alacremente, cambiare clima, cercare distrazione e compagnia sono tutte cose che non servono. La metodicità è poco affidabile, Verosimilmente un approccio metodico alla guarigione non esiste. Anche la morte è un evento individuale, arbitrario, che sfugge a ogni metodo”.

Per ben tre volte, nel corso del romanzo, Askenasi rimane muto, come paralizzato, dolente e silente di fronte ai suoi sorpresi interlocutori: davanti alla donna che sta per diventare sua amante, poi al cospetto della moglie tradita, infine di fronte a un frate incontrato per caso nella vigna sul retro di una chiesa – evidente metafora dello sguardo severo di Dio che lo interroga, e che gli suscita una reazione inconsulta, un gesto di rabbia e disperazione.

Askenasi è perduto quando constata che nessun appagamento è possibile. “Non è la bontà a riscattare l’uomo, si ripeté lentamente, bensì il delitto”.

venerdì 24 gennaio 2025

"Tempesta", sette racconti di Romain Gary

 Qui di seguito, la mia recensione di "Tempesta" (Neri Pozza) sette racconti di Romain Gary inediti per il pubblico italiano. L'articolo è stato pubblicato su Il Foglio di mercoledì 22 gennaio.

“Ero stato tante cose nella mia vita, console generale di Francia, killer professionista, un povero sceneggiatore, ma avevo anche pubblicato sotto pseudonimo un libro sulle tecniche di guerriglia, che era stato ritrovato nello zaino di Che Guevara. Ne sapevano molto i brigatisti internazionali che avevano operato in Spagna. E nel 1941, in un campo dell’Africa equatoriale francese, avevo insegnato il combattimento corpo a corpo all’élite della Legione straniera”.

Sono tutti di impronta schiettamente autobiografica questi sette racconti di Romain Gary, inediti per il pubblico italiano. Una chicca imperdibile, per gli amanti di uno degli scrittori più brillanti del Novecento francese, dalla vita avventurosa e glamour come pochi altri. Una raccolta eterogenea, priva di un fio conduttore, che attraversa le varie fasi della turbolenta vita dell’autore.

All’ultimo respiro, ad esempio, appartiene tipicamente al periodo “americano” di Gary, quello in cui era console a Los Angeles, era sposato con Jean Seberg e frequentava i divi di Hollywood che si stracciavano le vesti per la liberazione dei neri. Un ambiente piuttosto ingenuo, agli occhi disincantati e ironici dello scrittore.

“Quel cazzo di un negro di merda viene a dirmi che non può assolutamente avere un autista nero, che ‘sta storia lede la sua dignità e pure la mia. Dice che tutti i negri che girano per Beverly Hills con la loro Rolls Royce guidata da un autista nero si sentono come se avessero reso schiavo un loro fratello di colore. Pensa ai bianchi, che vedono un autista nero aprire la portiera dell’auto, con il berretto in mano, per fare uscire il loro datore di lavoro nero. Viene da ridere. (…) Dice che mi raccomanderà a degli amici bianchi che cercano un autista. Ma io come cazzo faccio, dopo cinque anni alla guida di una Silver Cloud, a guidare una Cadillac di merda. Lui se ne sta lì, a riempirsi la bocca con ‘ste storie di dignità, e poi, con un calcio in culo, ti fa passare da una Rolls da quarantamila dollari a una Cadillac del cazzo”. Questo racconto servirà poi da spunto per il finale di Biglietto scaduto (1975).

E’ invece ambientato in un’isola tropicale Tempesta, che apre e dà il titolo al volume, un tentativo giovanile pubblicato su Gringoire nel 1935.

Il racconto più strutturato, Il greco (60 pagine) ha per teatro un’isola delle Cicladi all’epoca della dittatura dei colonnelli, e riporta il lettore agli splendidi romanzi “resistenziali” di Gary: Educazione europea e soprattutto Gli aquiloni. Curiosamente, questo testo fu scritto da Gary in lingua inglese, a conferma della vivace poliedricità di uno scrittore dai tanti pseudonimi, per altrettanti e sorprendenti generi letterari.

 

domenica 22 dicembre 2024

Filosofi e Tiranni, di Giorgio Arfaras (Paesi Edizioni)

Qui di seguito, la mia recensione di Filosofi e Tiranni, di Giorgio Arfaras (Paesi Edizioni) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 18 dicembre.

L’ordine liberale si trova in crisi, a fronte di una duplice minaccia: al loro interno, le democrazie sono assediate dal populismo, mentre all’esterno subiscono l’attacco delle autocrazie. Per uscire dalla crisi di consenso, sostiene Giorgio Arfaras, va promossa la mobilità sociale, e non l’egualitarismo. Nel suo brillante excursus sulla storia economica dell’8-900, l’autore offre innumerevoli spunti di riflessione anche politica e filosofica, con considerazioni mai scontate o banali.

Così come la crisi degli anni Trenta fu la “pietra d’inciampo” del capitalismo ottocentesco, altrettanto la stagflazione degli anni Settanta lo fu per i “Trenta Gloriosi” del secondo dopoguerra. Questi ultimi permisero la nascita del welfare state nell’occidente democratico, mentre nel periodo successivo il pensiero egemone neo-liberale ha accompagnato la globalizzazione dei mercati.

In questo secolo, la crisi innescata prima dai sub-prime poi dalla pandemia, ha visto un ritorno del ruolo decisivo degli Stati e dei governi, non solo con l’immissione di grandi masse di denaro in funzione anticiclica, ma anche con un vero e proprio interventismo nella politica economica dei governi, indotti a presentare specifici grandi progetti di investimento, sottoposti all’approvazione delle istituzioni europee.

Secondo la vulgata maggioritaria, le democrazie a capitalismo avanzato hanno assistito impotenti all’emergere di oligarchie cosmopolite, annegate nel mare delle disuguaglianze, che è all’origine di quella “rivolta contro le élite” matrice ideologica del populismo. Viceversa, una minoranza sostiene che le idee neo-liberali, globalizzazione compresa, sono frutto dell’ambizione di un nuovo ceto medio, desideroso di ampliare la propria fortuna. Si tratta di una “economia della conoscenza” che si sviluppa ai danni del ceto medio debole e meno qualificato.

“Si osserva, ecco il punto cruciale, che con una specializzazione elevata si resta nella classe media, a differenza che con una specializzazione normale. Le famiglie con due redditi da lavoro non a specializzazione elevata, tendono a scivolare nella parte più bassa della classe media”.

La “relazione simbiotica” fra democrazia e capitalismo – spiega Arfaras – spinge gli elettori cosiddetti ‘decisivi’ a votare per i partiti che promuovono i settori avanzati; questi partiti, per allargare il consenso, possono a loro volta attivare politiche a sostegno di quei settori arretrati che versano in condizioni difficili.

In conclusione, “l’essenza della democrazia non è la redistribuzione o l’uguaglianza, ma il progresso della classe media forte, che redistribuisce parti del proprio reddito per ridurre la disuguaglianza”.

giovedì 28 novembre 2024

"Christopher e quelli come lui", di Christopher Isherwood (Adelphi)

Qui di seguito, la mia recensione di "Christopher e quelli come lui", di Christopher Isherwood (Adelphi) pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di martedì 26 novembre.

“Ma cosa voleva? Hirschfeld aveva visto giusto quando lo aveva definito infantile. Voleva tornare nel mondo della sua sessualità adolescente e riviverla senza le inibizioni che allora gli avevano impedito di goderne fino in fondo (…) L’innocente lussuria che aveva alimentato tutte quelle palpate di culo, quelle torsioni di braccia, quel prendersi a pugni e fare la lotta seminudi negli spogliatoi, poteva adesso uscire allo scoperto completamente nuda, senza vergogna, ed essere pienamente soddisfatta”.

Ha 24 anni Christopher Isherwood, nel 1929, quando decide di lasciarsi alle spalle l’ipocrisia britannica e le premurose attenzioni di una madre dalla quale non potrà mai avere piena approvazione, per trasferirsi nella libertina e permissiva Berlino, alla vigilia dell’avvento al potere del nazismo. Qui lo scrittore coltiva passioni e amorazzi, avventure e tradimenti, in preda a una curiosità abbandonica e lasciva, fra crisi isteriche e copiose lacrime. “Per quanto riguarda Heinz, le cose tra noi vanno davvero molto bene. Al momento ci siamo appena lasciati per sempre, ma questo è irrilevante”.

Nel corso di dieci anni e di numerosi viaggi, Isherwood si afferma come uno dei più interessanti e innovativi scrittori britannici del Novecento, prima di trasferirsi negli Stati Uniti nel 1938.

Nel 1963, molti anni dopo aver descritto quel turbolento periodo nel suo romanzo di maggior successo, Addio a Berlino - immortalato da Bob Fosse nel ’72 nel celeberrimo film Cabaret - Isherwood dà alle stampe una più ampia e bella autobiografia, ora ripubblicata da Adelphi con il titolo Christopher e quelli come lui (387 pagine, 22 euro).

Qui lo scrittore, divenuto nel frattempo una star del mondo letterario, narra di sé stesso con grande distacco e indulgenza. Per farlo, passa di continuo dalla prima alla terza persona: l’io narrante è l’Isherwood maturo che scrive, mentre il protagonista è un Christopher giovane e insicuro, la cui volubilità emerge dalla rilettura delle lettere e dei diari (in particolare quello della madre) e dai rapporti con alcuni fra i maggiori autori e registi dell’epoca.

“Ricordo lo shock di Christopher quando per la prima volta si rese conto che una delle ospiti era in realtà un uomo. Si era sempre immaginato i travestiti come creature chiassose, sguaiate, volutamente artefatte (…) Christopher credeva di avere rifiutato ogni idea di normalità, e di considerarla ormai con una sorta di divertito disprezzo. Ma il tipo di normalità presente all’Istituto Hirschfeld disturbava il suo puritanesimo latente”.

Come in un film, Isherwood “riprende” Christohper come l’osservatore straniero distaccato, che riceve le prime impressioni. “Io sono una macchina fotografica, completamente passiva, che registra e non pensa”. I am a Camera, infatti, sarà il titolo della prima riduzione teatrale di Addio a Berlino.

Christopher e quelli come lui è un caposaldo della letteratura omosessuale. Un libro divertente, brillante, per molti versi istruttivo. Qualcuno oggi potrebbe giudicarlo datato, classista, snobistico: al contrario, si tratta di un libro esteticamente perfetto, oltre che di notevole interesse storico. Verosimilmente gli omofobi non lo leggeranno – e se mai lo leggessero, lo troverebbero irritante.

venerdì 18 ottobre 2024

La terza pallottola, romanzo d'esordio di Leo Perutz

Qui di seguito, la mia recensione di La terza Pallottola, di Leo Perutz (Adelphi) pubblicata sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 16 ottobre.

“Di tanto in tanto riaffiora nella mia anima un giorno dimenticato, perso. Allora mi rivedo compiere atti folli o efferati, senza senso e scopo, tanto che suscitano in me meraviglia, scherno o persino collera. Gesù, come è potuto accadere che un tempo, in una terra lontana, io uccidessi un nobile sovrano?”

La terra lontana cui accenna l’io narrante è il Nuovo Mondo, dove prosperano in pace civiltà millenarie in procinto di essere sterminate dagli spagnoli di Cortés. Ma il tedesco e luterano Grumbach detesta i cattolici di Carlo V e parteggia per Montezuma, rendendo la vita difficile ai conquistadores impegnati nell’assedio di Tenochtitlàn.

Uscito nel 1915, mentre è già in corso la grande tragedia che porterà alla scomparsa della Mitteleuropa, La terza pallottola è il romanzo d’esordio di Leo Perutz, praghese di famiglia ebraica secolarizzata, che suscita subito l’attenzione del pubblico e della critica. Scritto in una prosa ricca, potente e immaginifica, il libro ottiene un notevole successo.

Nel prologo, il protagonista non ricorda. E’ febbricitante, confuso, in uno stato di semi-incoscienza. Solo all’epilogo le frasi smozzicate e vaghe delle prime pagine saranno infine chiare al lettore. L’impianto narrativo è quello tipico del romanzo storico, ambientato nel XVI secolo, accompagnato però da elementi propri della letteratura fantastica. Ne risulta una trama sospesa in un’atmosfera onirica, con continui scarti narrativi, in cui fattori realistici e magici si alternano in forma imprevista.

“Va’ per la tua strada dunque! – urlò a Grumbach – E la maledizione di Dio ti segua, discenda su di te, portandoti miseria e tormento! E la prima pallottola colpisca il tuo re pagano, la seconda la tua puttanella infernale, e la terza… - In quel momento il boia gli passò il cappio intorno al collo e lo spinse giù dalla scala. Garcia Novarro però non voleva morire prima di aver completato la sua atroce maledizione (…) Allora, tra sibili e rantoli soffocati, dalla gola dell’impiccato uscirono queste parole: E la… terza… è… per te!”.

Non stupisce che Borges nutrisse grande ammirazione per Perutz e per la sua tecnica narrativa, che verosimilmente ha ispirato almeno alcuni dei racconti del grande scrittore argentino. Negli ultimi anni Perutz tenta un difficile ritorno da Israele alla sua amata Vienna, ma incontra molte difficoltà. Come Kafka, come Svevo, anch’egli ha condotto una vita professionale modesta, impiegatizia. Dopo la morte, nel 1957, lo scrittore precipita nell’oblio, come il protagonista del suo romanzo d’esordio. Solo di recente si giunge alla riscoperta di un autore ingiustamente considerato “minore”, in realtà fra i più interessanti e significativi della Mitteleuropa.