Qui di seguito, la mia recensione di "Bebi, il primo amore", romanzo d'esordio di Sandor Marai, pubblicata in seconda pagina del quotidiano Il Foglio di giovedì 25 luglio, con il titolo "Nel taccuino di un professore di latino c'è già tutta la grandezza di Marai".
“Questo
è il mistero più grande. Il mistero di come un essere umano finisce per
guastarsi. E rimanere solo. E’ come se parlasse nel vuoto: la sua voce non si
sente. Gli altri non lo capiscono. Cammina sulla loro stessa strada… ma non
arriva da nessuna parte. Gira in tondo, intorno a sé stesso”.
Adelphi
pubblica il romanzo d’esordio di Sandor Marai (1900-1989) che appena
ventottenne già rivela uno straordinario talento letterario. Bebi, il primo
amore è un racconto molto coinvolgente, di impronta psicologica, incentrato
sulla figura di un meticoloso e logoro insegnante di latino, in un liceo della
provincia ungherese, in epoca asburgica.
L’autore
di Le braci ricorre all’espediente del taccuino, al quale il professore
affida le sue amare riflessioni, per penetrare nell’animo del protagonista.
Questi sembra uno di quei tipici personaggi che alcuni decenni più tardi caratterizzeranno
i romanzi di Thomas Bernhard: è chiuso, ripetitivo, irritabile, nevrotico. I
limiti angusti del microcosmo in cui si è trincerato gli impediscono di vedere
ciò che invece appare chiarissimo al lettore. E’ anaffettivo, apatico, stanco. L’anedonia
gli impedisce di apprezzare anche solo la bellezza di un paesaggio montano.
Tutta
la prima parte del romanzo, circa un terzo del volume, è una sorta di lunga
ambientazione, volta a descrivere il carattere del protagonista e il suo male
di vivere. Nella sua impenetrabile solitudine, l’uomo si concede – unica
eccezione in ventotto anni – una vacanza estiva in uno squallido albergo
montano. Per quanto diffidente e sulla difensiva, il vecchio professore riesce
a instaurare un dialogo con un altro avventore. Questi, inaspettatamente, con
poche parole, mette l’uomo di fronte alla sua incapacità di condurre
un’esistenza normale, a causa di una solitudine dai tratti visibilmente
patologici. Il vecchio vorrebbe riflettere, ma se ne dichiara incapace. Lo
considera un vizio pericoloso: “Una volta che si comincia a riflettere su sé
stessi, a insistere si rischia di diventare matti”.
Il
ritorno in città segna il passaggio nel vivo del romanzo. L’insegnante si trova
ad affrontare un fatto inedito: gli viene assegnata un’ottava classe, cioè
l’ultimo anno di liceo, composta da diciottenni; inoltre – novità assoluta e
spiazzante – fra questi vi sono ben sei ragazze.
Il professore confida al taccuino il suo disagio, riflessioni ingenue ma premonitrici. Le sue attenzioni si concentrano in particolare su due giovani: Màdar, un ragazzo povero ma eccellente studioso, di gran lunga il più dotato della classe; e Margit Cserey, ragazza esile e appena graziosa, che gradualmente diviene l’oggetto morboso delle sue attenzioni senili. Con il passare dei mesi, l’insegnante procede passo dopo passo verso l’inevitabile dramma finale, in un crescendo di irritazione e di errori che si riveleranno fatali. “Sono sempre stato un tipo introverso. Ci sono alcune cose che mi mettono in imbarazzo e mi innervosiscono in modo estremo. Per quel che riguarda la sfera fisica, l’intimità mi provoca un grandissimo disagio”.