Qui di seguito, la mia recensione di "La questione ebraica nella società postmoderna", di Emanuele Calò, pubblicata in seconda pagina sul quotidiano Il Foglio di stamane.
E’
un pozzo senza fondo, il recente saggio di Emanuele Calò su “La questione
ebraica nella società postmoderna” (Edizioni Scientifiche Italiane, 500 pagine,
60 euro). Il proposito di percorrere “Un itinerario fra storia e microstoria”,
come da sottotitolo, è ben rappresentato dalle oltre 1400 note che accompagnano
il testo: una vera e propria miniera di riferimenti bibliografici, excursus
letterari, micro-biografie, testimonianze, aneddoti.
Calò
affronta la questione ebraica a partire dalla storia del Ghetto, dalla bolla “infame”
di Paolo IV (1555) all’Editto sopra gli ebrei di Pio VI (1775) “la pagina più
nera della storia dell’umanità”. Nel 1579, “il lunedì da sei giudei ignudi et
sigillati in fronte (come al solito) si corse lo pallio; dopo queste bestie
bipedi correranno le quadrupedi”.
Qualunque
altra stirpe in tali condizioni sarebbe scomparsa, incapace di sopportare un
disprezzo così profondo – scrive l’autore - ma gli ebrei ne furono capaci, e si
conservarono, indistruttibili, nel cuore stesso del cattolicesimo.
Le
tesi di Marx sulla questione ebraica vengono liquidate con precisione, unitamente
all’intero impianto dello storicismo marxista. Analogamente, Calò si libera con
ironia della tesi di Freud su un “Mosè
egiziano”: “Questa sua ricostruzione, poco credibile e per nulla condivisa,
getta più una luce freudiana su Freud che sull’oggetto del suo studio”. Per
contro, “la ferocia hitleriana sconvolse Freud come umanista, ma non come
pensatore, avendo egli sempre negato la supremazia della cultura sull’istinto
di distruzione, che riteneva impossibile eliminare dall’animo umano”. Sartre,
da parte sua, avverte che “gli antisemiti si divertono”, perché l’antisemitismo
è una passione, mentre Einstein suggerisce causticamente di lasciare
l’antisemitismo ai non ebrei (anche se il codazzo degli ebrei che si aggregano,
commenta Calò, è “ontologicamente ineliminabile”). Quanto a Irene Némirovsky,
la sua produzione letteraria potrebbe indurre a incasellarla come ebrea
antisemita, ma in realtà l’ebraismo era l’ultimo dei suoi problemi, perché il
primo era la madre (che infatti dopo la Shoah respinse le nipoti, urlando loro da
dietro la porta di rivolgersi a un orfanotrofio).
Il
terzo capitolo, dedicato all’Olocausto, è il più significativo e naturalmente
il più doloroso. Il libro rievoca la conferenza di Evian (luglio 1938, 32 Stati
partecipanti) convocata da Roosevelt per affrontare il problema dei profughi
ebrei, che nessuno vuole accogliere. “Poche volte nella storia si è assistito a
uno spettacolo più miserando”. Recordman dell’ignavia è il rappresentante
australiano: “Non abbiamo problemi razziali in Australia e non vogliamo
importarne uno”. E’ certamente curioso, annota l’autore, che Hitler, pur avendo
la prova inoppugnabile del disinteresse mondiale per gli ebrei, abbia continuato
a credere fino alla fine dei suoi giorni che gli ebrei controllassero il mondo.
Nella
famigerata conferenza di Wannsee, emerge che l’impegno nazista alla espulsione
degli ebrei è arrivato a quota 537.000, ma è bloccato dai rifiuti dei paesi
destinatari. “In quel momento per i nazisti lo sterminio non era
indispensabile; ne avrebbero fatto a meno se il mondo avesse accolto gli
ebrei”.
Il volume infine affronta le controversie storiche e giuridiche concernenti le guerre e la statualità di Israele, la definizione di antisemtismo dell’Ihra, la campagna discriminatoria del BDS, i pronunciamenti della Cedu. Nel complesso, una monumentale summa di storia, letteratura, filosofia, politica e diritto, un poderoso strumento di conoscenza e riflessione contro l’antisemitismo eterno.
Grazie molto interessante
RispondiEliminaGrazie dell'apprezzamento.
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